LOLLOVE CHE PROFUMA DI FICHI MATURI E UVA ACERBA: IL BORGO SARDO ADDORMENTATO NEL BOSCO

scorcio di Lollove


di Claudia Zedda

Lollobe è morta di vaiolo. Io non so nemmeno cosa sia il vaiolo, non so che odore abbia, che forma prenda, che dolore procuri. Un dolore che uccide evidentemente, che mette in ginocchio un paese e che lascia fare il lavoro sporco alla carestia.

Lollobe è morta di vaiolo nel 1860, ma di quella epidemia, di quei pianti strazianti, di quella malinconica sofferenza c’è una traccia vaga, sbiancata dal tempo, riscaldata dal sole, che sopravvive solo negli angoli più bui del paese.

Lollobe, che poi in tanti chiamiamo Lollove è morta, ma non te lo so spiegare, è ancora viva. Sta a pochi giri di ruota dalla mia Nuoro e si raggiunge in fretta. Ricordati di trattenere il respiro pochi momenti prima di aprire lo sportello.

Fai due passi lungo il viottolo in salita.

Ora respira.

Lollove, non te lo saprai spiegare nemmeno tu, è viva. Viva e profumata. Profumata di fichi maturi e uva acerba, con un ronzio d’api in sottofondo che regala al paesello un non so che di laborioso e indaffarato. Eppure è fermo.

E’ tutta di pietra, tutta in salita e discesa, ma che sia stregata non c’è dubbio.

Quando l’ho visitata io non c’era nessuno intorno. Mi è piaciuta subito Lollove, per quel suo mistero, per quel suo silenzio. L’ho risalita con l’entusiasmo della scoperta, l’ho ripercorsa con la testa per aria in ammirazione dei grossi grappoli d’uva che crescono pensanti e colorati. Poi d’improvviso, nel bel mezzo del niente, una tromba lontana ha preso a suonare una melodia vecchia di decenni.

“Scherzi?”

Ho chiesto a mio marito. Lui ha sorriso, mia figlia ha iniziato a canticchiare quella melodia che non potrò dimenticare, perché le magie non si dimenticano.

Un tempo il paesello era attraversato da un fiumiciattolo che lo divideva in due. Oggi al suo posto scorre con uguale calma via Bixio, che allo stesso modo la segna come una bella ruga d’espressione.

Lollove è morta, ma non te lo so spiegare, è viva. C’è una chiesa sempre aperta che ti invoglia all’ingresso, c’è un ristorantino chiuso ma che sembra debba aprire di li a qualche momento, c’è un gatto nero e qualche cane di piccola taglia, pochi abitanti che non ho visto ma intuito si.

Ci sono le pietre antiche, i muri pitturati cento e una volta che si spellano al sole, tegole sarde che cadono, camini e forni che aspettano d’essere accesi ancora.

E’ la leggenda soprattutto che ti fa guardare con occhi curiosi questo paese che forse non è morto come sembra, ma piuttosto in attesa del giusto motivo per svegliarsi.

La leggenda è simile a tante altre che ho sentito raccontare in Sardegna. A Lollove in un tempo lontano arrivarono delle monache. Erano come ci si aspetterebbe da delle monache, piuttosto religiose. Alcune, ma non tutte. Le poche meno dedite alla causa la tradirono con dei pastori della zona. Nacque Lollove. Nacque il mito della maledizione. Non si sa bene quale delle monache, abbandonando il luogo lo scagliò contro il paese, eppure la maledizione chi vive a Lollove ancora la ricorda.

Una delle donne vestita di nero, con gli occhi cupi e il cuore in tormento si voltò, puntò il dito contro quell’incredibile amalgama di pietra, verde e cielo e macchiò il paese di parole scure che ancora lo rendono schiavo:

“Lollove as a esser chei s’abba è su mare: no as a crescher nen parescher mai[1]!”

Un brebu piuttosto potente.

Ancora oggi Lollove è come l’acqua del mare. Sale e scende come le onde, ma è stato condannato a non poter né crescere né morire.

Lollove non è morta, ecco! Lollove è addormentata.

Oggi, frugando nel web ho scoperto che la leggenda ha qualche dettaglio in più. Siediti, arriva il bello.

Pare che secondo alcuni dei pochissimi abitanti rimasti in loco, Lollove sia stata fondata dagli abitanti di una città piuttosto antica, andata perduta (della quale però si mantengono tracce nei boschi che sovrastano il paese a detta degli abitanti). Si chiamava Selene. Proprio da questo paese provenivano i pastori che riuscirono a sedurre alcune monache. Dall’incontro nacque il paese.

Se ti dico che Selene significa luna in greco, e che la luna è simbolo piuttosto evidente della antica divinità pagana di Mamai, sa mama manna, capisci bene che la storiella nasconde forse il ricordo di un’antica vicenda. Forse i figli di mamai riuscirono ad allontanare gli esponenti della nuova religione guadagnandosi quella che noi oggi ricordiamo come maledizione.

C’è di più. Nonna Gavina ricorda che davanti alla chiesa un tempo si trovassero tre lunghe pietre. “Dovevano rappresentare le fasi lunari” dice lei, perché incise su ciascuna pietra si trovava la luna nelle sue diverse fasi.

Ultima curiosità prima di salutarci: un tempo (XIX secolo) il paese era detto Loy, poi Loloy. Dovrebbe aver avuto origine dal termine in sardo arcaico lo’ ò (corso d’acqua) e lòbe (ghianda). Non a caso il paese era attraversato da un corso d’acqua e posizionato nel cuore di un bel bosco ricco di ghiande (vedi Wikipedia)

Visita Lollove, il mio consiglio è spassionato. Visita la piccola Lollove che dorme perché te lo assicuro, nei pochi momenti in cui accenna a volersi svegliare il suo sorriso ti entra nel cuore e tu non puoi far altro che innamorartene.

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