di Sergio Portas
Un vero e proprio show archeologico-geofisico quello messo in piedi da Raimondo Zucca, archeologo dell’Università di Sassari e Gaetano Ranieri, docente di geofisica applicata all’Università di Cagliari alle “Stelline” di Milano sabato 3 ottobre. Con tanto di computer che proietta video accompagnati dalla trombe straziante di Paolo Fresu, a creare atmosfera. Non che ce ne sia bisogno che il duetto dei due accademici verte sulla scoperta di gran lunga la più importante che si sia fatta i Sardegna negli ultimi anni : il sito di Mont’e Prama e i suoi giganti emersi dal terreno dopo un sonno durato secoli. Spezzettati, accoltellati fin nelle gambe, circondati da betili e modelli di nuraghi dalle torri a punta conica che li fanno assomigliare a castelli medievali. Modelli di nuraghe quadrilobati ma persino a otto torri, mai visti i loro corrispondenti in terra di Sardegna. Tanto che Gaetano Ranieri, da buon ingegnere può permettersi di supporre che possano essere degli studi in miniatura di qualcosa che talvolta si è potuto costruire, talvolta no. Che si fa presto a dire “nuraghe”, in realtà se l’ingegneria moderna si mettesse in mente di ricostruirne uno, con le tecniche usate dai nostri progenitori, mica ne sarebbe capace, le piramidi quelle sì, che si tratta di mettere su blocchi squadrati uno sull’altro, ma le “tolos” di Barumini circondate da scale elicoidali interne che permettono la salita al mastio superiore senza scoprirsi, muovendo blocchi di pietre che vanno restringendo la volta fino a farne cupola, senza usare alcuna malta, quello non lo sapremmo fare. Di nuraghi a Mont’e Prama ancora non ne sono spuntati, ci sono questi “pugilatori” con uno scudo a coprire il capo, e gli arcieri con le chiome intrecciate a mò di babilonesi, i guerrieri con spada e scudo circolare. Tutti letteralmente fatti a pezzi, verrebbe da dire a pezzettini, tanto piccoli sono i frammenti di arenaria che, a mò di puzzle tridimensionale, si sono dovuti assemblare perché noi li si possa ora rivedere in piedi, e nel museo archeologico di Cagliari e nel nuovo bel museo di Cabras. E se per la loro riscoperta (primi anni ’70) galeotto fu il trattore di un contadino oggi sono le macchine meravigliose di Gaetano Ranieri che riescono a fare una TAC al terreno, strato per strato, proiettando fasci di luce a lunghezza d’onda più ampia del visibile che magicamente, nell’incontro di strutture litiche di opportune dimensioni, rimandano allo schermo del computer una traccia di possibili ulteriori presenze archeologicamente rilevanti. Dall’oggi al domani si va quasi a colpo sicuro, con differenze dell’ordine dei centimetri: l’ultimo betilo di arenaria che è saltato fuori dal terreno “a colpo sicuro” pareva, nelle foto rimandate dal radar, un guerriero sdraiato, ma è comunque uno dei più alti mai ritrovati in Sardegna. E solo da pochi mesi due teste, una con elmo cornuto (le corna spezzate) e due piedi ancorati a una base di pietra con sandali dalla suola rialzata. Ma è la fila di tombe a pozzetto, che fanno una linea retta inconfondibile sullo schermo del “radar” a dire che il sito è lungi dall’aver svelato tutti i suoi tesori. Tombe singole, simili a quelle che sono state rinvenute ad Antas, dinanzi al tempio che Caracalla, imperatore di origine celtica (caracalla è una specie di tunica con cappuccio) Marco Aurelio Antonino per gli storici, fece costruire nella valle dell’omonimo rio, vicino a Fluminimaggiore. Per secoli i sardi avevano inumato i loro morti con riti collettivi, domus de janas e tombe dei giganti raccoglievano i resti mortali di decine di corpi. Qui c’è un salto di paradigma, improvvisamente le inumazioni sono singole e, visto che oramai una ricerca del DNA non costa più uno sproposito, dai primi dati raccolti si nota un’assenza totale di donne. Eppure le principesse, le sacerdotesse, in figura di bronzetto votivo, sono numerose e inquietanti, coi loro copricapi a cono o a tesa molto larga: da”strega”. Frugando in mezzo ai fiori, il 5 maggio dello scorso anno, si sono recuperati altri 3.000 nuovi frammenti, alcuni dei quali veramente infinitesimali (più di 7.000 dalla prima serie di scavi). Da qui le ipotesi di chi abbia distrutto, e si sia accanito in questa maniera quasi maniacale, questo vero e proprio sacrario sardo. E più si scava più sono le domande a cui gli archeologi, gli storici, debbono tentare di rispondere. Punici, Cartaginesi di Tharros? Non ci sono loro tracce in proposito. E chi furono quei maestri che che proveniendo dal Mediterraneo orientale, ittiti o aramaici che fossero, insegnarono ai sardi l’arte di una statuaria così imponente? Zucca e Ranieri si passano le battute l’un l’altro, e la platea di sardi presente numerosa sorride nell’apprendere che una volta tanto le università di Cagliari e Sassari hanno saputo sotterrare l’ascia di guerra. E dalla loro collaborazione è nato questo campo di lavoro che ha saputo portare risultati straordinari nella conoscenza della storia sarda. Mille sono le domande del pubblico e Pierangela Abis, del circolo sardo milanese che ha messo in piedi l’evento, è costretta a tagliare corto. Dice Gaetano Ranieri che tra quindici giorni andrà in pensione ma pare proprio che il sodalizio con Raimondo Zucca non si spezzerà, continueranno insieme a esplorare Mont’e Prama, da dove forte viene un canto epico, fatto di pietre.