di Ornella Demuru
Si definisce “figlio della Sardegna” Cristian Mannu, neo-vincitore della ventottesima edizione del Premio Italo Calvino. Il prestigioso premio letterario per scrittori esordienti che per la quarta volta, dopo Marcello Fois, Flavio Soriga e Gianni Marilotti, vede sulla cima del podio uno scrittore sardo. Classe 1977, padre di 3 figli di cui uno appena nato, ha una moglie che è stata sua compagna di liceo, il Liceo classico Siotto Pintor di Cagliari. Anche lei, precisa il vincitore, “è una brava scrittrice”. La vita di Cristian, è una vita modesta, come quella di tanti giovani sardi. Figlio di mamma casalinga e babbo operaio, vive la prima infanzia a Perdasdefogu, dove il padre lavora al Poligono militare. Poi la famiglia si trasferisce a Cagliari. Esattamente in via Podgora, nel noto quartiere popolare di San Michele, sicuramente uno spazio urbano non semplice per le ascese sociali dei giovani scolari. Cristian Mannu, in via Podgora fa le elementari e anche le medie, scuole che oggi non esistono più, cosa di cui anche Cristian si rammarica. Dopo un liceo a pieni voti, l’università di Cagliari, facoltà di Lettere moderne, indirizzo filologico-letterario. Ma non è il classico studente universitario. Studente-lavoratore e anche genitore. Pubblicista per La Nuova Sardegna sino al gennaio scorso, ma anche consulente in un istituto di credito. La sua gentilezza traspare da subito, appena contattato si rende disponibile nonostante i tanti impegni che ancora lo trattengono nella Torino del Premio.
Cristian, cosa significa aver vinto il tanto ambito “Premio Calvino”? Il premio l’ha vinto la Sardegna. Vorrei che servisse per unirla, per farla volare di nuovo, come quando c’era Gigi Riva.
Gigi Riva, parliamo di mitologia. Ma tu non eri neanche nato ai tempi di “Rombo di tuono.” Che Sardegna era quella? È la Sardegna che mi è stata narrata dai tanti racconti, dove i miti erano appunto viventi. Una Sardegna gioiosa e particolare che mi è giunta anche grazie ad un bel libro di Nanni Boi, giornalista sportivo, mio caposervizio quando ero quasi bambino a La Nuova Sardegna.
Ti aspettavi questa vittoria? Non mi aspettavo di arrivare nemmeno alla finale, figurarsi il premio.
Donatella Lissia, la tua docente di Lettere al liceo invece se l’aspettava. Sei stato un allievo “speciale”? La professoressa Lissia mi ha sempre amato. Credo che in cuor suo ci abbia sempre sperato in un riconoscimento ufficiale.
Nelle tue prime parole, dopo la premiazione ricordi tua nonna. Quanto conta tua nonna in tutto questo? Mia nonna non sono riuscito a salutarla quando è morta. E credo mi abbia aiutato. Questo è stato il mio modo per rivolgerle quel saluto mancato.
Ma hai parlato anche di una “fata madrina”. Possiamo chiederti chi è? È la scrittrice Michela Murgia. I due capitoli centrali del mio libro, ho iniziato a scriverli dopo che sentii la presentazione del suo romanzo “L’Incontro”. Le sue parole mi colpirono parecchio. Così quando ho saputo di essere in finale le ho mandato un messaggio su Facebook in cui le chiedevo di farmi da “fata madrina” spirituale, ma non speravo che lo aprisse. Poi invece si è materializzata affianco a me. Per me è stato un momento di grande commozione.
I sardi non vedono l’ora di leggere questo tuo libro, ma di cosa parla? “Maria di Isili”, questo il titolo, narra di un personaggio, una donna che a me ricorda tanto quello della poesia “Ritratto di donna” di Wislawa Szymborska. Il romanzo è un testo polifonico, a dieci voci. Vivi e morti. Ognuno parla di sé e della protagonista, in maniera più o meno diretta.
Il titolo lascerebbe intendere l’ambientazione in un paese. Si c’è Isili, il paese del Sarcidano. Ma c’è anche San Michele, il quartiere cagliaritano. La vita di periferia e il sottoproletariato urbano.
In un tempo preciso della nostra storia? Il tempo, per quanto si possa ricavare un’ambientazione a cavallo tra anni 50/60/70, è un tempo mitico, come ha sottolineato lo scrittore Fabio Stassi, uno dei giurati alla Finale del Calvino. È il tempo della tragedia. Un tempo sospeso.
Sergio Atzeni il grande visionario sardo, Wislawa Szymborska la poetessa Nobel polacca, Fabrizio De Andrè l’altro grande poeta contemporaneo, sono questi i tre autori che hai citato dopo la premiazione. Due però sono dei poeti. Insolito per chi pratica la prosa. La poesia è parte di me. Quando scrivo sento come un ritmo che non riesco a interrompere. Credevo fosse un difetto per la prosa. Invece pare sia piaciuto. Sergio Atzeni mi parla da dentro. In particolare l’Atzeni di “Bellas Mariposas” e del “Figlio di Bakunin”. Di Fabrizio De Andrè è stata importante l’interpretazione dell’Antologia di Spoon River, un’opera che ha inciso parecchio su “Maria di Isili”.
Quanto sei contento per la Sardegna e i sardi? Sono contento solo per la Sardegna, per i sardi. Non cerco fama. Anzi. Se l’opera servirà a farci ripartire avrò raggiunto il mio obiettivo, la mia missione.
Pensi che la tua vita da oggi cambierà? La mia vita non deve cambiare. È bellissima così.
Progetti per l’imminente futuro? L’unico progetto per ora è trovare una casa editrice coraggiosa. Io ne avrei una in mente, ma per ora non voglio svelarla. Ho un grande sogno, mi piacerebbe che il libro uscisse in occasione del ventennale della morte di Sergio Atzeni. Speriamo sia possibile.
* Sardinia Post