di Irene Bosu
Francesco Casula nasce a Ollolai (NU). Dopo gli studi medi-superiori fatti dai Gesuiti, -frequenta il Liceo Sociale di Torino, dove studiò Cesare Pavese – a Roma nel 1970 si laurea in Storia e Filosofia. È stato docente di Storia, Filosofia e Italiano negli Istituti Superiori. È giornalista pubblicista dal 1989. Attualmente è Direttore Responsabile e redattore di “Liberatzione sarda“, periodico bilingue e “Madiapolis” periodico degli studenti universitari di Cagliari. Negli anni passati è stato direttore responsabile de “Il Solco” il prestigioso giornale del PSD’AZ e di Emilio Lussu e del periodico bilingue della Confederazione sindacale sarda “Tempus de Sardinnia“. Ha complessivamente scritto circa mille articoli su riviste, periodici e quotidiani sardi e italiani; ha scritto e pubblicato numerosissimi saggi e novelle; sono sue le undici monografie in lingua sarda per la collana “Omines e feminas de gabbale”; ha composto numerose prefazioni a saggi e romanzi legati alla Sardegna. Ha scritto “Letteratura e civiltà della Sardegna”: un’opera antologica che raccoglie le opere di scrittori e poeti bilingui, scrittori e poeti in lingua italiana, scrittori e poeti in lingua sarda. Inoltre è stato consulente-esperto in materia di Lingua e Storia della Sardegna, dell’Assessorato della Pubblica istruzione, Beni culturali, Informazione, spettacolo e sport della Regione autonoma della Sardegna. Eletto dal Consiglio Regionale della Sardegna, nel Gennaio 2000, è stato membro dell’Osservatorio Regionale della Lingua e della Cultura sarda, istituito per la gestione della Legge regionale 26/97 su “ Promozione e valorizzazione della cultura e della Lingua della Sardegna”. Tiene spesso conferenze, in qualità di relatore presenta libri, saggi e romanzi.
Dal punto di vista professionale si dedica soprattutto alla diffusione e valorizzazione della cultura, della storia e della lingua sarda. Domanda a bruciapelo: si può essere sardi senza conoscere il sardo? La lingua sarda, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione dell’archeologo Giovanni Lilliu – dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea. Se questo è vero, certo che si può essere Sardi anche senza conoscere la lingua, ma Sardi dimezzati, sradicati, deprivati di un intero universo di suoni e di saperi. Dunque senza storia, senza memoria, senza identità. Persino quasi afasici. Soprattutto i giovani. Qualche studioso sostiene infatti la tesi dei giovani sardi oggi “semiparlanti”: non conoscono più la lingua sarda e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita. Che sarebbero tutte incorporate proprio nella lingua materna (nadìa). Quella lingua cioè che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere.
Chi sono i nemici della lingua sarda? Gli apparati e le articolazioni dello Stato. I Partiti politici e i grandi Sindacati italiani. Ma soprattutto la Scuola italiana in Sardegna. Che fin dall’Unità d’Italia – per non risalire ancora più indietro – ha sempre espunto dai programmi qualunque elemento “locale”, in primis la lingua sarda. Tesa com’era a un processo e progetto di omogeneizzazione culturale e linguistica. Tale concezione la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia post unitaria.. I cui programmi scolastici sono impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale o statalista che di si voglia e italo centrica e sono finalizzati a creare una coscienza “ unitaria “, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione” dell’intera storia italiana. L’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955,nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “ controllare eventuali attività didattiche- culturali riguardanti l’introduzione della lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “ schedare “ gli insegnanti. E non si tratta di “pregiudizi“ presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“, invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché “ separatista “ e attentatrice all’Unità della Nazione! Oggi qualcosa inizia a cambiare: anche a livello giuridico e istituzionale. Per esempio con l’approvazione della Legge regionale n. 26 del 15 Ottobre 1997 su Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna, della Legge nazionale n. 482 del 15- Dicembre1999 sulle Minoranze linguistiche e della a Carta Europea per le Lingue Regionali e Minoritarie. Ma siamo ancora agli inizi.
La “Lingua sarda comuna” è sempre sotto processo, accusata di essere una lingua artificiale. Cosa ne pensa? A questa domanda risponderò in sardo e argomentando diffusamente. Deo penso chi chie cheret su “Bilinguismu perfetu”, est a nàrrere sa parificatzione giurìdica e pràtica de su Sardu cun s’Italianu non podet èssere contra a unu istandard, comente est sa LSC. Ca, sena istandard, non bi podet èssere peruna ufitzializatzione e sena ufitzializatzione sa limba sarda est destinada a si nche mòrrere o a èssere cunfinada in carchi furrungone, in carchi festa de bidda pro cantare batorinas e noitolas. O impreada pro nàrrere brullas, carchi paristòria o, si nono, paràulas malas, e frastimos. Deo so cumbintu chi oe, subra de s’istandardizatzione, pro lu nàrrere a sa latina: ”non est discutendum”. Ca ischimus bene chi sena s’unificatzione de s’iscritura, peruna limba si podet imparare in sas iscolas, si podet impreare in sos ufìtzios, in sos giornales, in sas televisiones, in sas retes informàticas, in sa publicidade, in sa toponomastica. Sena ufitzializatzione, pro nàrrere, in sos litzeos o in sas Universidades sardas, “cale Sardu” imparamus? E in sos giornales e in sas televisiones, chi allegant a totu sos Sardos, ite impreamus? Calincunu narat: faghimus duos istandard: unu pro su logudoresu e unu pro su campidanesu. Ite machine e tontesa est custu? Semus giai male unidos e cherimus galu ateras divisiones? E, in prus,: pro ite duos e non tres, bator, deghe, 365, cantas sunt sas biddas sardas e su “dialetto” issoro? E in ue agabbat su campidanesu e in ue cumintzat su logudoresu? E esistit unu campidanesu e unu logudoresu o bi nd’at medas? Sa LSC no andat bene? La curregimus, la megioramus, la irrichimus: ma dae issa depimus mòere. Ca est s’istandard chi tenimus, a pustis de trinta annos de brias e de cuntierras subra de custa chistione. E sos “dialetos locales”? Chi sunt una richesa manna, non b’at perìgulu chi si nche mòrgiant? Est a s’imbesse: cun una limba ”istandardizada”, una Limba chi siat una “cobertura” pro totus, est prus fatzile chi sigant a campare; sena limba istandart si nche morint peri issos. Sa LSC est artifuitziale? Deo pesso chi nono.
Lei è membro della Giuria di vari Premi letterari prestigiosi: il più longevo fra tutti, quello di Ozieri, istituito nel lontano 1956, il premio letterario e di poesia bilingue “Antonio Gramsci” di Ales; premio di poesia sarda di Iglesias; premio letterario di poesia sarda di Uta e nel 2006 è stato Presidente della Giuria del Premio di poesia di Escalaplano. Quali sono gli ingredienti che danno valore a un componimento letterario? A mio parere un componimento letterario deve basarsi sul vissuto storico, (personale e collettivo). Senza ignorare – sia ben inteso – la fictio presente in ogni discorso letterario. Voglio dire che un componimento letterario (sia poetico che in prosa) pur non staccato dall’attrito della storia e pur nutrendosi di dati personali, pur intridendosi delle esperienze di vita dell’Autore e dunque esprimendo la storia dell’anima (s’istoria de s’anima) non deve però limitarsi a rappresentarle e per così dire a filmarle, le esperienze: ma deve velarle e fasciarle. Travestendole allegoricamente e assegnando loro i segni di una condizione umana più universale, trasformando sentimenti ed emozioni in una occasione di epifania rispetto alla pura realtà, scarnificando e ottundendo la condizione storica precisa ed evaporando la dimensione temporale e spaziale. Ma non basta: occorre personale valentia letterario-poetica ma anche un lungo tirocinio tecnico- stilistico e di esercitazione scrittoria in cui ha sottoporre la composizione a un processo di affinamento e di alleggerimento, per così dire a un duro sforzo ascensionale. E nel contempo occorre che l’Autore “governi” la parola e, dunque la lingua: intesa non come flatus vocis, pura forma, orpello o decorazione, musica o immagine ridondante, semplice prodotto estetico o luccicore sontuoso. Le parole sono infatti conchiglie: che sembrano vuote ma dentro ci puoi sentire il mare. E con le parole devono far ressa nel circuito compositivo – specie in quello poetico – silenzi e pause, cromatismi, ossimori e sinestesie, contrazioni sintattiche, brachilogie, metafore e di immagini, suoni e i ritmi, onomatopee e assonanze.
I dati statistici e i sondaggi denunciano un disamore generalizzato verso la lettura. In particolare, la fascia più consistente di non lettori è costituita da ragazzi tra i 6 e i 17 anni. Lei ha insegnato Italiano e Storia negli Istituti superiori. Quali sono, a suo parere, le cause di questo divorzio ragazzi-lettura? Ci sono responsabilità della scuola? Le cause sono plurime ma la responsabilità maggiore la attribuisco alla scuola e ai docenti. Questi infatti – o la maggioranza di essi – mentre pretendono (giustamente) che si studi un capitolo di storia o un Autore (magari con dati e date) sulla cui conoscenza viene attribuita una valutazione e un voto, non vi è la stessa “pretesa” in merito alla lettura di un romanzo, di una commedia, di un saggio. La lettura è considerata un optional…lasciata alla libera scelta dello studente. Occorre cambiare rotta (io in 40 anni di insegnamento l’ho sempre fatto!): la lettura di romanzi e opere letterarie in genere, (accompagnata da schede riassuntive, valutazioni, giudizi personali dello studente) deve organicamente far parte essenziale (e obbligatoria) della didattica. Occorre educare i giovani alla lettura:facendoli leggere! E’ anche l’unico metodo per imparare la lingua!
Durante il suo periodo cagliaritano, ha conosciuto lo scrittore Salvatore Cambosu. Che opinione si è fatto di lui? Può abbozzarne un breve ritratto e regalarci una qualche inedita chicca? La mia conoscenza è stata molto fugace: ero molto giovane e ricordo solo che frequentava soprattutto Cicitu Masala, il nostro più grande poeta etnico che poi avrei conosciuto bene dopo il mio trasferimento definitivo a Cagliari a metà degli anni 70. Cambosu si presentava in modo dimesso e modesto, spesso era silenzioso. Masala lo stimava molto: apprezzava soprattutto il suo capolavoro Miele Amaro, per il tono ora saggistico ora lirico, fabulatorio e persino onirico. Io apprezzerò l’opera di Cambosu solo molto dopo quegli anni, quando la leggerò e la studierò a fondo per poter inserire l’intellettuale di Orotelli nella mia “Letteratura e civiltà della Sardegna” (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianoca 2011/2013). Nel secondo volume gli ho dedicato ben 10 pagine in cui sostengo che Miele Amaro“può essere definito come un almanacco, un’antologia, un catalogo generale dell’identità sarda, della sua storia e della sua civiltà, che Cambosu ora come etnologo e antropologo, ora come demologo e storico, ma soprattutto come narratore e poeta, racconta dall’interno, dal sottosuolo, facendosi portavoce del popolo. O, se vogliamo possiamo considerarlo un romanzo antropologico sulla Sardegna, sospesa allora fra arcaicità e modernizzazione, tradizione e innovazione, difesa e valorizzazione dell’identità e apertura all’innovazione. Il romanzo propone comunque una sardità non mitizzante ma ancorata alla realtà”.
La sua prima esperienza politica, dopo gli anni del ’68 che ha vissuto a Roma, risale al 1972 quando si candida alle elezioni politiche a soli 26 anni. Quali sono le maggiori differenze socio-culturali che nota tra la Sardegna di oggi e quelle di quegli anni? E’ cambiato tutto. Quando nel ’69 iniziai a insegnare c’era nella scuola come nella società un clima effervescente: di partecipazione, di protagonismo sociale, di progetti e speranze. Di cambiamento. Persino di “rivoluzione”. Volevamo cambiare il mondo. Abbiamo trovato un muro di gomma. Invalicabile. Da parte dei Partiti, ad iniziare dal PCI di allora. Da parte delle Istituzioni: ad iniziare dalla Regione sarda. Insensibili alle proposte e alle richieste che provenivano dal basso. Molti protagonisti di quella fase – intellettuali soprattutto – non potendo cambiare lo stato delle cose, hanno cambiato se stessi. “Adeguandosi”. Rientrando nell’alveo del potere e dei piccoli e grandi privilegi della/delle casta/caste politico partitiche/sindacali/istituzionali/professionali. Un’intera generazione di giovanotti ormai sdraiata nei salotti del potere un tempo criticato, contestato e aborrito, a rigirare fra le dita cartacce o scartoffie e/o a mistificare storia e storie elucubrando l’ideologia del pentimento. Assistiamo così a un pauroso “riflusso”. Alla delega. Al ritiro nel privato. La crisi di oggi è anche un risultato di quel “deporre le armi” da parte di molti, troppi, che avrebbero invece dovuto dare “l’assalto al cielo”: come programmaticamente recitava un famoso apoftegma del Movimento studentesco del ’68.
Nel suo libro “Uomini e Donne di Sardegna – Le controstorie” sono presenti 15 monografie di personaggi sardi illustri, “de gabbale”, che hanno rappresentato magistramente la nostra terra: da Amsicora a Giommaria Angioy, da Sigismondo Arquer a Montanaru, dalla Deledda a Gramsci, da Lilliu a Grazia Dore. Se dovesse rinascere, in quale di queste figure vorrebbe reincarnarsi e perchè? Non ho alcun dubbio: in Sigismondo Arquer. Intellettuale e scrittore di livello europeo e plurilingue (conosceva il latino, l’italiano, il castigliano, il catalano e il sardo). Orgogliosamente Sardo: dopo essere stato arrestato, durante il processo a Toledo (Spagna) rispondendo alla deposizione di un compagno di carcere che riportava voci sulla presunta provenienza dei suoi dalla Germania affermava con forza: sono sardo, nato in Sardegna, nella città di Cagliari, dove abitano i miei genitori. Mio padre è aragonese di origine (de naciòn Aragonés) e mia madre è sarda. Conosce la lingua sarda e in Sardo ci ha lasciato il Patre noster (Babu nostru). Trascorrerà quasi un quarto della sua esistenza nelle carceri di Toledo fra torture indicibili. Nato a Cagliari nel 1530 sarà incarcerato dall’Inquisizione nel 1562 e morirà il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione. Durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. La colpa? Essere eretico. Ovvero aver difeso in modo intransigente fino all’ultimo respiro la libertà di coscienza e di pensiero. Il suo reato più grande? Aver scritto che ““Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concunbinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris » (I Sacerdoti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne fra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e di danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura). Dimenticato e interrato dalla cultura italiana. Una cultura codina e bigotta. Tutta prona nei confronti della Controriforma. Subalterna al clericalismo, per non dire, all’oscurantismo. Ma la colpa maggiore è dei Sardi: in primis dell’Università e della Scuola. Sardi auto colonizzati, che hanno dimenticato un grande, sfortunato e tragico intellettuale ed eroico martire sardo: uno degli uomini de gabale (di valore) che ci ha fatto conoscere fin dal 1500 in tutta l’Europa. Ricordo infatti che la sua Sardiniae brevis historia et descriptio (in assoluto la prima storia della Sardegna) – cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata) – , verrà inserita nella Cosmografia scritta da Sebastian Münster, famosissimo geografo e cartografo tedesco..
La studio della civiltà nuragica nelle scuole – regionali e nazionali – è praticamente assente. In relazione alla recente ri-scoperta dei Giganti di Monte Prama non pensa sia opportuno rivalutare i programmi scolastici delle scuole dell’obbligo per informare al meglio i nuovi studenti? Come, secondo lei si potrebbe fare lo stesso passaggio a livello nazionale? La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia- di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi (soprattutto sardi), poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”. Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi. L’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda. Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas. Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli. La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati. Questa storia occorre iniziarla a insegnarla nelle scuole sarde: ma non solo. Bisogna varcare il mare. Soprattutto di fronte a scoperte come quelle dei Giganti di Monte ‘e Prama. Prima o poi infatti gli archeologi come gli storici e gli storici dell’arte in primis, dovranno decidersi a riscrivere la storia dell’arte, iniziando a mettere in discussione il primato della Grecia nella statuaria del Mediterraneo: dai “Giganti” emerge infatti con chiarezza e nettezza che non alla Grecia ma alla Sardegna spetta l’inaugurazione e il primato della grande statuaria. E bel 400 anni prima della Grecia!
Che consiglio darebbe a un giovane che vuole impegnarsi nella promozione della cultura e della lingua sarda? Primo consiglio: studiare molto per conoscere la cultura sarda. E la lingua, parlandola e scrivendola. Per quanto poi attiene alla storia sarda si tratta non solo di studiarla ma di “riscriverla”. Nei testi scolastici o, in genere, nella storia “ufficiale” quella sarda è stata falsificata e compressa quando non abrasa, cancellata, manipolata. “La storia – scrive Francesco Masala – di necessità è storia dei vincitori, i vinti non hanno storia…gli storici insomma scrivono la storia con la complicità degli archivi (sos papiros) lasciati dai vincitori: i vinti non possono lasciare mai nulla negli archivi”. Ebbene i “vinti ma non convinti” – anche questa espressione è di Masala – devono riscrivere la storia sarda. Dal loro punto di vista. Anche utilizzando sos papiros, ma non per celebrare Cesare bensì per seppellirlo.
* focusardegna.com
FACCIO GLI AUGURI DEI PREMI RICEVUTTI IN VARIE PARTI D* ITALIA UNA PERSONA LAUREATA CON VARI PREMI ALLA SULLA LINGUA COMPLIMENTI —
Bellissima intervista a uno dei più preparati studiosi della storia e della lingua Sarda,bravissimo scrittore e uno dei pochi docenti che riesce a trasmettere l’amore delle proprie conoscenze a chi lo ascolta….è il più bravo dei nostri docenti dell’UNI3 del Monreale.Bravissima Irene ….
Francesco è forse il più indicato e anche il più vocato a diffondere ed esaltare la lingua Sarda come espressione di un Popolo.
Io che pensavo di essere orgogliosamente un Ollolaese, mi ritrovo ad orgogliosarmi di essere Sardo. Maiuscolo.
Ok Francesco. Anche se quando parli Italiano si capisce che lo “possiedi” totalmente.
Un gigante della cultura sarda. Per la lingua comune, recentemente bocciata dalla Corte italiana… si potrebbe ritentare con una lingua di mezzo tra logudorese e campidanese, prendendola da paesi di confine e risolvendo il problema posto dalla corte di lingua inventata.