di Serena Guidoni
“La mia vita è stata molto tribolata, fatta di sacrifici, lavoro duro e rinunce, ma nonostante la povertà della mia famiglia, sono cresciuta seguendo dei principi importanti: l’onestà e soprattutto la dignità”.
Ci sono storie che pretendono di essere raccontate, la cui forza al loro interno spinge affinché il mondo le conosca. Ginetta Marongiu, e la sua storia, non hanno mai avuto questa pretesa, tutt’altro. La riservatezza e la compostezza di questa donna semplice, tipiche di tempi e periodi storici ormai dimenticati, le ha sempre ricordato che “non è bene” parlare di sé e della propria vita. Le cose da raccontare e tramandare sono altre: come si fa il pane, i dolci tipici della propria zona, i liquori realizzati con i metodi antichi.
Nata a Villaputzu nel 1927, Ginetta è figlia di una realtà che forse oggi fatichiamo a comprendere. La quotidianità che ha vissuto da bambina e da ragazza è ben diversa da quella dei giovani di adesso. Il suo racconto è un tuffo nel passato, in un mondo lontano, quasi ovattato ai nostri occhi, e proprio per questo meritevole di essere raccontato.
Siamo nel 1939 e Ginetta ha da poco compiuto dodici anni: «Il mio compleanno è il 15 marzo e ad agosto già raccoglievo mandorle a Muravera. Mia mamma mi aveva più volte raccomandato di stare vicino alle persone adulte perché durante il tragitto da Villaputzu bisognava guadare il Flumendosa, e poteva essere pericoloso. Il mio lavoro consisteva nello sbucciare le mandorle, e la paga era di 60 lire al giorno agli adulti e 50 ai ragazzi. Io non volevo essere da meno rispetto agli adulti, e mi sono impegnata nel lavoro talmente tanto che il padrone decise di darmi la loro stessa cifra. Con dieci giorni di lavoro ero riuscita a comprarmi la gonna e su gipponi (la blusa) per la festa del paese, ma non le scarpe e il fazzoletto. Ricordo che per cucire la gonna e la blusa mia mamma ha ricompensato la manodopera della sarta con fichi secchi, un prodotto che avevamo in casa».
Settant’anni fa era consuetudine andare a lavorare così giovani: «Ammarolla! (per forza) Non avevamo nulla a casa e tutti dovevamo contribuire- continua Ginetta – Il lavoro non si rifiutava mai, anche se per una sola giornata. Zappavo tutto il giorno e per il pranzo avevo a disposizione solo un pezzo di pane, che mi portavo io stessa da casa, e per s’ingaungiu (companatico) un po’ di cicoria, ambruazza (rucola selvatica) e cardi, che raccoglievo nelle vicinanze del campo nel quale lavoravo». Le ore di lavoro erano circa dieci e il rientro a casa era alle 21, ma la giornata lavorativa della donna non finiva: una volta tornata a casa, naturalmente, bisognava occuparsi delle faccende domestiche.
Dal racconto di Ginetta scopriamo meglio il lavoro nei campi, comprensibilmente faticoso: «Le coltivazioni erano di grano, fave, e altri legumi. Ero piccola e stasia in candela (magrissima), ma non mi risparmiavo. Pensa che una volta, durante il periodo desu messi (la mietitura), mi è caduta sulla schiena la sponda di un carro. Non potendo smettere di lavorare ho sopportato il dolore, continuando in quei giorni persino a trasportare in testa le brocche dell’acqua per il fabbisogno familiare. È la verità, io non dico bugie!».
Il lavoro ripagato in natura. Durante il periodo della mietitura i braccianti potevano avere l’autorizzazione a fare la spigolatura (raccogliere le spighe che cadevano ai mietitori), in modo tale da portare a casa del grano come provvista personale, ma in cambiosu meri (il padrone) pretendeva che durante l’anno venissero fatti, gratuitamente e in aggiunta alle normali mansioni, alcuni lavori nei campi: pulire l’orzo e il grano dalla pula (bentulai), estirpare fagioli, fave, piselli e altri legumi e stenderli nell’aia. «Alla fine del periodo della mietitura – ci dice Ginetta – venivamo ricompensati con unu moi de trigu (ottanta chili di grano)».
Sa stua accodrada. Ginetta ci racconta che spesso capitava che si venisse assunti presso una famiglia che aveva diverse colture; ragion per cui il lavoro era ininterrotto per tutto l’anno. Questo sistema si chiamava sa stua accodrada, che consisteva nell’utilizzare uno stesso operaio per le lavorazioni che di stagione in stagione si susseguivano. Naturalmente era una fortuna trovare questo tipo di impiego, invece di dover aspettare la chiamata a giornata. Il pagamento avveniva a fine lavoro (ad esempio dopo la raccolta delle mandorle) e Ginetta ricorda che l’anno in cui ha seguito per intero il ciclo lavorativo dei fagioli (circa quattro mesi) è riuscita a comprarsi la stoffa per una gonna e un grembiule.
La famiglia. Ginetta appartiene ad una famiglia contadina, la madre Carolina e il padre Maurizio, insieme ai loro cinque figli, hanno sempre lavorato nei campi. Una donna laboriosa, Ginetta, dotata di un notevole spirito di abnegazione, grazie al quale in cambio ha sempre ricevuto degli ottimi trattamenti da parte dei padroni. Una volta cresciuta, ha smesso il lavoro nei campi ed è stata assunta come domestica presso una famiglia di Villaputzu per la quale svolgeva diverse mansioni: dal lavaggio dei panni al fiume, alla preparazione del pane per tutta la famiglia e i rispettivi lavoratori, nonché le faccende domestiche come badare al pollaio. Il padre è morto quando Ginetta aveva 26 anni e per questo dovette in parte rinunciare al proprio lavoro come domestica a tempo pieno, per poter stare a casa con la madre e non lasciarla sola la notte. Nel corso degli anni una delle prerogative di Ginetta era quella di lavorare per potersi permettere una dote e così sposarsi. In una famiglia povera era abbastanza usuale che le ragazze provvedessero da sole a crearsi il proprio corredo: «Come domestica mi pagavano 3000 lire al mese e io desideravo tanto poter acquistare, po sa doda (per la dote), un copriletto in ciniglia che all’epoca era molto di moda. Il copriletto costava 12000 lire, con i tappeti 15. Misi da parte i soldi per più di quattro mesi, e a malincuore alla fine potei comprarmi solo il copriletto».
Una famiglia matriarcale, quella di Ginetta, come del resto gran parte delle famiglie sarde di quel periodo. La madre, ci racconta, era una donna autoritaria ma non per questo meno amorevole: «Io volevo molto bene a mia madre, ci ha cresciuti con devozione e sani principi, ma come spesso capitava all’epoca, non voleva che i figli si sposassero. Pensa che molto tempo dopo ho scoperto di aver avuto numerosi pretendenti che andavano da lei a chiedermi in moglie, i quali però venivano puntualmente respinti». Ginetta è riuscita comunque a coronare il suo sogno d’amore con Gesuino, un uomo per bene e ben voluto da tutti, con il quale ha avuto tre figli. Ginetta non guarda indietro nel tempo con nostalgia o rammarico, tutt’altro: è fiera di ciò che con sacrificio lei e suo marito sono riusciti a costruire. Un’esistenza semplice, senza troppe pretese, fatta di piccoli desideri da soddisfare quotidianamente e lontani dall’essere pretenziosi. C’era solo un piccolo cruccio nella sua vita, quello di non aver potuto frequentare la scuola. Ma la signora Marongiu questo sogno è riuscita comunque a realizzarlo in età adulta, frequentando un corso serale e adesso si “vanta” con la famiglia e gli amici di avere conseguito la licenza elementare.
Oggi conduce una vita serena, è dotata di uno spirito invidiabile, e nonostante i molti “acciacchi” dati dall’età, non perde occasione di collaborare e rendersi utile per preparare il pane (è maestra nell’arte de su coccoi), il vino, e lavorare la rafia per fare i cestini. La sua utilità, soprattutto all’interno della comunità di Villaputzu, sta soprattutto nel trasmettere le sue conoscenze in questi antichi mestieri domestici. Durante il suo racconto Ginetta ha vagato spesso con i ricordi, passando da un momento all’altro della sua vita senza un preciso ordine apparente, ma non ha perso occasione di ripeterci che ciò che riportava era tutto vero e di quanto sia stato, in molte occasioni, difficile cavarsela, quasi a voler sottolineare la sua buona fede.
* LaDonnaSarda
Un’emozione unica . Grazie
bella e struggente la storia e il volto di ginetta