DESAPARECIDOS, I PERSEGUITATI DALLA DITTATURA DI VIDELA IN ARGENTINA: LE STORIE DEI SARDI SCOMPARSI


di Virginia Saba

Buenos Aires, 1976. Il 24 marzo una marcia in Plaza de Majo ha ricordato i trenta mila desaparecidos perseguitati dalla dittatura di Rafael Videla. A pulsare di dolore anche il cuore sardo degli immigrati che oltre oceano avevano immaginato di trovare la speranza e invece hanno perso affetti, sogni, l’anima. Giusto lo scorso ottobre 2014 una sentenza emessa dal Tribunale della città di San Martin, in Argentina, aveva scatenato le grida di Santina Mastinu. La donna voleva giustizia, ma è arrivata a metà, con la condanna del generale e l’assoluzione per tre militari della squadriglia la “patota“, responsabile di aver giustiziato suo marito Mario Bonarino e di aver fatto sparire suo fratello Martino Mastinu, detto “El Tano”. Una storia che affonda le sue radici nel 1976, quando instaurato il governo militare in Argentina, con Videla, trentamila persone sparirono senza lasciare traccia. Alcuni uccisi in uno dei duecento centri di detenzione, altri, si racconta, buttati nell’oceano dagli aerei.  La storia dei desaparecidos italiani, e in particolare di quelli sardi, raccontata dettagliatamente dal giornalista Carlo Figari in “El Tano. Desaparecidos italiani in Argentina” (am&d edizioni), è anche quella delle donne sarde che partite per un un’altra terra in cerca di fortuna hanno vissuto, invece, l’incubo della violenza, della tortura e dell’ingiustizia per sei lunghi anni. Donne che hanno investito sul futuro di figli e nipoti, che hanno lasciato le proprie radici per offrire loro una vita migliore, ma che hanno finito per non rivederli mai più. Senza neanche una motivazione. E oggi non hanno neanche un corpo sul quale piangere.  Tutto cominciò con Maria Mastinu, madre di Santina e di “El Tano”, arrivata in Argentina da Tresnuraghes, diventata in quegli anni di repressione una delle “Madri di Plaza de Mayo” (associazione fondata dalle madri dei desaparecidos). Maria, oggi oramai deceduta, è stata tra le prime madri a sfilare davanti alla Casa Rosada di Buenos Aires, la dimora del presidente della Repubblica: un fazzoletto sul collo e le foto dei figli scomparsi, con tanto di date ad indicare il giorno di nascita e di scomparsa di figli e nipoti appena ventenni. Studenti, molti dei quali tutto fuorché rivoluzionari armati, fatti sparire senza troppi motivi.  La marcia di quelle madri, ogni giovedì, fu una protesta tacita che vide qualche donna sparire per sempre, qualcun’altra essere malmenata o minacciata. Eppure, Maria e le altre hanno continuato per anni e anni a combattere la loro battaglia.  Oggi molti dei desaparecidos sono rimasti senza nome e non sono presenti nella lista Conadep (Commissione nazionale sulla scomparsa delle persone). I familiari aspettano ancora di ritrovare i corpi dei propri cari. La storia di “El Tano” è un riscatto per tutti loro, anche se, dopo le condanne di generali e militari in Italia, la sentenza in Argentina è stata meno piacevole per i parenti dei desaparecidos.  I sottoufficiali, condannati a 24 anni nel processo di Roma, sono stati prosciolti. Uno di loro, nel frattempo, è deceduto. Si tratta di Joe Luis Porchetto, un compagno di lavoro di El Tano, passato poi coi militari e tra gli autori della sua cattura. 

LA STORIA. Maria raggiunse in Argentina suo marito Giovanni Mastinu. Nel dopoguerra il rischio era quello di morire di fame: la nuova avventura portava speranza e Maria portava i suoi figli, Santina e Martino, in un viaggio che gli avrebbe assicurato un futuro.  Tutto procedeva bene, con Martino diventato presto un sindacalista notevole nei cantieri navali “Astarsa” del Porto Tigre: leader incontrastato, procurava il pane ai bambini poveri e cercava sempre di difendere i compagni operai per i quali le condizioni di lavoro erano peggiorate drasticamente. Ma ogni forma di ribellione veniva placata. Persino manifestare i propri pensieri era diventato un reato. Le patotas, squadre della morte, si scatenano e Martino, nell’agosto del 1975, fu portato via all’uscita dal lavoro. Incappucciato, pestato, fu torturato con le scariche elettriche dai militari. Lo strumento utilizzato è la picana, un pungolo elettrico usato dai gauchos argentini per controllare il bestiame.

Secondo quanto riportato da Figari, El Tano confessò che avrebbe preferito morire piuttosto che sentire quelle scariche addosso ripetutamente. Cinque giorni di sequestro. Ma era solo l’inizio. La repressione continuò, e Martino finì incomprensibilmente in un dossier che lo identificava come peronista e appoggiato dai Montoneros, quindi, un ribelle. Licenziato, capisce di essere in pericolo. La ricerca di un rifugio, la scelta di un’isola del delta del Paranà. Ma la serenità durò poco tempo. Qualcuno fece la spia, raccontò che El Tano si nascondeva lì insieme a tutta la sua famiglia: il papà Giovanni, sua madre Maria, sua sorella Santina insieme al marito Mario e alla sua piccola Vanina. E c’era anche Rosa, moglie di El Tano, una donna argentino-spagnola.  I militari non persero tempo e si precipitarono sulla riva del fiume. Ma al posto di Martino freddarono, probabilmente per sbaglio, Mario Bonarino, il marito di Santina, sparato mentre fuggiva con la loro figlioletta Vanina alla quale il papà fece da scudo, e quindi fortunatamente salva. Qui si unisce la sofferenza di un’altra donna sarda. Non solo Mario era l’uomo di Santina, ma era anche il figlio di un’altra donna dell’Isola che seppe dell’omicidio solo molto tempo dopo. La donna si chiamava Rosa Piras ed era emigrata col marito anche lei da Tresnuraghes. Rimasta vedova molto presto, fece il pieno di sofferenza: aveva tre figli, tutti morti e Mario Bonarino era il maggiore.  Nelle testimonianze riportate da Figari si leggono le sue parole di dolore: “Non esco più di casa se non per andare in chiesa. Mi hanno spezzato il cuore sono sola col mio dolore”.  Il giorno in cui assassinarono Mario, i militari catturarono anche la moglie di Martino, Rosa. Fu interrogata e torturata senza sosta con la picana, volevano sapere quale fosse il nascondiglio di Martino, che lei ovviamente non poteva conoscere. Da quel giorno Rosa si è immersa nel silenzio e non ha più voluto parlare della vicenda.  Qualche giorno dopo toccò anche a Santina passare un po’ di tempo coi militari. Il suo interrogatorio fu fatto di calci e pugni, di un colpo alla testa che le fece perdere conoscenza. La picana era casualmente rotta, quindi Santina non provò mai le scariche elettriche sulla sua pelle. Ma restano le cicatrici di tre giorni di terrore. E la minaccia ad ogni occasione di non farne parola con nessuno. 
Successivamente a questi episodi Martino, Santina e Maria si rividero di nascosto con la promessa di tornare nell’isola dove avrebbero riavuto la pace e di ritrovarsi a Trenuraghes. Ma non andò così, perché Martino sparì per sempre.  Una notte una patotas portò via Santina davanti alle due sue figlie, Vanina e Viviana. La obbligarono a condurli da Martino, rifugiato dai cugini Demontis, l’alternativa prevedeva conseguenze amare per le sue due figlie. Non ebbe scelta.  Arrivati da Martino la squadriglia lo trascinò in auto dopo averlo pestato a sangue. Santina venne scaricata al primo cavalcavia. Tornò a casa in lacrime e raccontò tutto a sua madre Maria. La violenza nei giorni successivi fu delle più raffinate. Gli stessi militari si presentarono nella casa delle donne coi vestiti civili per farsi fare il caffè, come se nulla fosse, intimando loro di non raccontare a nessuno di tutte le violenze subite, dell’omicidio di Mario e della sparizione di Martino. Fu in una di queste occasioni che uno di loro, Porchetto, indossava senza ritegno gli abiti di El Tano, ferendo ancora di più sua madre Maria. L’ultima a sentire El Tano fu sua moglie Rosa. Dopo il sequestro del marito era stata, ancora una volta, catturata e torturata di fronte a lui, che fu costretto dai militari ad assistere, impotente, alla scena crudele della violenza. Rosa, che subiva la picana con la benda negli occhi, raccontò che riconobbe la voce di Martino che, sollecitato dalla squadriglia, diceva: «Sì, è mia moglie».  Oggi quella squadra della morte è stata identificata grazie a più testimoni. In Italia il processo, concluso nel 2004, ha visto le condanne di un generale, un prefetto e quattro sottoufficiali. In Argentina, nel processo allargato che coinvolgeva ben trentatré operai uccisi/scomparsi, ci sono state sei condanne e tre assoluzioni.
C’è anche un’altra storia di desaparecidos sardi che forse, invece, non troverà mai giustizia. Francesca Milia di Samugheo si ritrovò, dopo che da vent’anni viveva in Argentina, a sfilare insieme alle Madres de Plazas de Mayo. Nel fazzoletto i nomi dei suoi due figli, Vittorio Graziano e Anna Maria Rita Perrighe studenti universitari a La Plata, nati in Argentina, ma col sangue sardo.  Dopo un viaggio di tredici ore in autobus, Francesca arrivò finalmente all’appartamento dei suoi figli. Non le aprirono mai. Furono i vicini a raccontare che la sera prima una macchina dei militari aveva portato via Francesca, moglie di Vittorio, con la schiena insanguinata, oltre che tutto l’arredamento della casa. La donna non seppe nulla dei suoi figli.
I dati del Conadep, come riporta Margaret Caddeo in “Sardi d’Argentina”, dicono di una loro detenzione nel centro La Cacha e che morirono di “massiccia distruzione celebrale“.

*LaDonnaSarda

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3 commenti

  1. VER ESO RECUERDA EL DOLOR DE ESA EPOCA FATAL –?????

  2. Se sabia poco y nada de lo que pasaba en esa epoca negra y los que sabian no lo hablaban por miedo ,Yo de estas historias me enterè cuando vino Carlo Figari (el periodista que escribiò “EL TANO” con Don Paolino y familiares de los desaparecidos de Tresnuraghes ,parece increible pero es la pura verdad, Se lo dije a Santina el dia que nos encontramos en un acto en la embajada de Italia .

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