“Un anno sull’altipiano”, scritto nel 1936, apparso per la prima volta in Francia nel ’38, dove Emilio Lussu era in esilio come antifascista, insieme all’amico Carlo Rosselli e dopo una storica fuga dal confino all’isola di Lipari, in Italia fu pubblicato solo nel 1945 e resta una delle opere più incisive e esemplificative che la nostra letteratura possegga sulla Grande Guerra, intensa testimonianza di vita e intellettuale. Daniele Monachella, in quest’anno in cui si celebra il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, porta il testo in teatro, leggendone alcune parti con un sostanziale, protagonistico supporto della musica alle parole.
Nasce così uno spettacolo forte, incisivo, coinvolgente, che rende senso e anima del libro, giocando su un doppio piano, da una parte quello dell’esperienza quotidiana, degli orrori e morte, e, dall’altra,quello della riflessione intellettuale e sociale del tenente Lussu, più, contemporaneamente, quello dell’anima sarda, intima, popolare del racconto e quello più generale e contemporaneo, rispettivamente espressi dal suono delle luneddas di Andrea Pisu e da quello di una chitarra con effetti elettronici di Andrea Congia. “Un anno sull’altipiano”, che è poi quello di Asiago nel penultimo anno di guerra, sta girando l’Italia e rientra nel programma della Presidenza del Consiglio per il Centenario della prima guerra mondiale, curato dalle struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale. Recentemente si è visto a Roma all’Orologio e la prossima tappa sarà a Milano dal 15 al 17 maggio al teatro Franco Parenti. Monachella, che firma anche la riduzione e l’adattamento, costruito con i due musicisti parte dall’esergo presente nel libro, “Ho più ricordi che se avessi mille anni”, eco dei “Fiori del male” di Baudelaire, e riesce a restituire il messaggio morale, la visione lucida, la testimonianza storica e civile di quelle pagine con i loro interrogativi inquietanti, con le notazioni impietose, con una profonda umanità e rispetto per la vita, davanti all’ansia, il patire e ripiegarsi di ognuno, al senso di sconfitta, tra massacri inutili e caterve di morti. Lussu, neolaureato in legge e studente interventista, è sottotenente e si guadagnerà grande fama per la sua capacità di comando e profondo senso umano, in un posto dove sembrava poter esistere solo la disumanità. Mosso alla guerra contro l’autoritarismo degli imperi centrali da un profondo senso di libertà e giustizia, vedrà i suoi ideali scontrarsi con spaventose carneficine e la tragedia collettiva, di paura e morte vissuta da interi reparti di fanti, i “poveri diavoli” che sono quelli che pagano più di tutti. Attorno a sé trova solo povera gente, “pastori, contadini, operai, impiegati”, e si chiede dove siano finiti tutti gli altri, come si interroga sulla impreparazione e la scelleratezza dei generali (con uno dei quali ha alla fine un dialogo esemplare per ottusità, prevenzione, distacco dalla realtà). E anche le domande del generale e le risposte del tenente sono due piani di quell’esperienza, come il compararla, con un amico e un filo d’ironia, ai ricordi letterari di Omero e della guerra di Troia, o avvicinare i momenti di tregua e ritorno alla vita civile alle regole militari in trincea o al momento di un assalto. E Monachella, sui ritmi, gli echi, i suoni rievocativi e gli scoppi e rimbombi ritmici che gli propongono i due musicisti, contrapposti eppure in continuo e ricco dialogo, recita, modifica toni e intensità, volume e colore del suo racconto, diventando più sincopato, alzando la voce nel riferire di assalti e combattimenti, tornando all’andamento piano al momento della riflessione, portando emotivamente gli spettatori all’interno del racconto.