di Daniele Madau
“A quel punto iniziò a piovere, Maria unì le mani a ciotola per riempirle d’acqua benedetta e poi si avvicinò per l’ultima volta al figlio. «Bevi figlio mio, bevi, che tu di questo mondo hai assaggiato solo il fiele e non il miele»”. La disponibilità che Salvatore Niffoi mi dimostra è come ciò che si racconta sull’ospitalità sarda: generosa, totale. E le metafore che usa sembrano trasportarci in un suo racconto, hanno la stessa passione.
Vorrei partire dall’inedito sulla Passione: com’è nata la collaborazione con la parrocchia di S.Eulalia e l’associazione “Non solo avvocati”, che ha promosso l’iniziativa? Glielo chiedo perché è interessante la sinergia tra lei – cantore dell’eterno mistero sardo che si perpetua – e la parrocchia al centro del melting-pot del quartiere della Marina: come si trova tra questi due estremi? Nel centro della Sardegna o nel quartiere della Marina a Cagliari, siamo tutti uguali, sotto il colore della nostra pelle: questa è la base. S.Eulalia è un luogo dove si vive la fede, dove davvero si fa visibile l’andare verso le periferie. Con l’associazione “Non solo avvocati”, poi, c’è un’amicizia forte, molto sentita. In loro trovo passione e impegno.
La narrazione della Passione di Cristo s’intitola “Una storia che ci legge”: anche se si può intuire, può spiegare questo titolo? “Ci legge” come umanità perché lei la guarda dal punto di vista della fede? È stato, per questa occasione, uno scrittore- credente? Scrivere è un atto di fede: per scrivere io devo sentire la materia in profondità. Son partito da una prospettiva di fede, perciò, anche nella scrittura, attività che mi coinvolge totalmente; in più, però, “ci legge” perché ha il tempo per farlo, il tempo dell’eternità.
L’uomo può passare sulla terra da cretino o, dato che altro di lui non rimane se non la polvere, può lasciare esempi pesanti e non passarci sopra leggero, per prendere in prestito il famoso titolo del romanzo di Atzeni.
Il suo racconto ha come protagonista privilegiata Maria; è inutile sottolineare la rilevanza che la figura di Maria assume nella religione cattolica. In Sardegna, tuttavia, questa rilevanza sembra aumentare: ciò è dovuto, secondo lei, al particolare ruolo che la donna ha rivestito in Sardegna? È stato così per lei? Certo, ho avuto presente la donna barbaricina, che è una spugna che assorbe le passioni e, con l’amore, rende la vita presenza dell’amore stesso ed esorcizzazione del male e della morte.
Per Maria, la Madonna – che io immagino e descrivo in maniera molto carnale – ho avuto come modelle mia zia, mia mamma, mia nonna. Loro mi hanno fatto imparare come non si debba aver paura della morte, che è presenza costante della nostra vita. Devo anche aggiungere che le amicizie più profonde e sincere, che non sono molte, le condivido con alcune donne. La vita con loro mi ha fatto pensare come, forse, Eva non sia nata dalle costole di Adamo ma abbia dato a lui, all’uomo la, diciamo così, virilità.
Come mai Passione di Cristo e Sardegna si sposano così bene nella finzione letteraria e cinematografica (penso anche a “Su Re” di Columbu)? Forse perché non è una finzione e la Sardegna è la terra del dolore arcano e invincibile o questa potrebbe essere una scusante per restare ripiegati sopra un atavico vittimismo? Purtroppo è come se ci fosse un atavico, prenuragico, onnipresente vittimismo; quello che Bufalino chiama isolitudine a “marchiare un’unicità che è condanna e privilegio allo stesso tempo: è un destino di isolamento e di estraneità alla storia”. Siamo stati colonizzati ma, a forza di allenarci, ci siamo autocolonizzati; magari, comodamente, lavandoci le mani con una maglietta dei quattro mori. Leopardianamente la nostra è una terra benigna ma abbiamo corso, e corriamo, il rischio di renderla una discarica. Quando tratti bene la terra, essa, che è molto femmina, ti dà tanto, ti ringrazia; invece noi ci vendiamo all’asta e, in cambio, spesso tendiamo solo ad “arraffare”.
“Tramas de Amistade”, oltre che una testata giornalistica, è un’associazione che ha come interlocutori privilegiati i giovani emigrati. Se oggi fosse un giovane uomo, sarebbe emigrato?E con quale stato d’animo: quello rabbioso, romantico, di chi parte esule perché non capito, quello illuministico- cosmopolita di chi si sente cittadino del mondo o quello di chi parte per arricchirsi ma darebbe tutto per ritornare? Io ho viaggiato molto, ho studiato e mi son laureato a Roma; quando, però, conosci il tuo paese, secondo Balzac, conosci il mondo. Provocatoriamente mi vien da pensare che dovremmo evacuare la nostra isola e far tornare indietro le migliori intelligenze. Quando ritornano a casa, esse, sanno vedere bellissima la Sardegna mentre noi, spesso, mancandoci di rispetto, la vediamo come terra per un fiorire di batterie e materassi usati. Se si rimane in Sardegna bisogna esserci con consapevolezza. Ho quattro figli ma, purtroppo, loro non possono andare dove porta il cuore ma dove porta il lavoro. Se vogliamo rimanere dobbiamo svegliarci e immaginarci la vita; critichiamo i politici ma abbiamo i politici che ci meritiamo.
Leggendo alcune recensioni alle sue opere, ho trovato come lei indicasse in Francesco Masala il suo modello; a lui la unirebbe l’individuazione di un “male di vivere” simile a quello di Montale o Pavese: l’origine, però, per Masala sarebbe sociale, per lei esistenziale. È vero questo? Tziu Ciccittu è stato un grande amico; in realtà eravamo dei disperati ottimisti, andando a pescare dall’animo umano. Guardavamo la Sella del Diavolo pensando che la sua bellezza dovesse essere motivo d’ottimismo. Come Thomas Bernard, guardavamo il paesaggio in un modo che forse oggi è in estinzione.
Il successo è il necessario compagno di viaggio per uno scrittore? In altre parole, avrebbe senso, per lei, essere uno scrittore per pochi lettori? Farsi travolgere dal successo è per gentina, è vanagloria. Io, pasolinianamente, non sono un presenzialista. Ho una famiglia meravigliosa, amici, pochi ma consistenti. Scrivere è solo una necessità, ti scava e ti brucia la carne. Da qui nascono le emozioni: se non trasmetti emozioni, perché i lettori dovrebbero leggerti? Meglio, per me, un libro con qualche difetto che libri diversi da quelli che ho voluto scrivere.
Condivide l’avvicinamento che la critica compie tra lei e Camilleri? Chapeau a Camilleri; abbiamo due stili diversi: io nasco con il parlato.
In un’ottima recensione di “Pantumas” di Michele Lauro su Panorama, si legge: “A volte, confesso, leggendo Pantumas mi sono scordato gli eventi per abbandonarmi ai suoni, come se una voce antica declamasse da qualche antro di granito una sinestesia di effluvi, sapori, fragranze, emozioni”. È un suo scopo quello di far passare in secondo piano gli eventi, come se fossero loro a fare da scenografia alla Sardegna? La mia narrazione è materia, mercato metaforico: apro la finestra e mi basta guardare per trovare ogni cosa. La sostanza dei miei scritti è paesaggio e c’è sostanza negli odori, nelle nostre lingue e in tutta la nostra terra, un melting-potdi etnie. C’è una diversità meravigliosa: in 4 – 6 km le parlate hanno una fonetica differente e, a esempio, i glottologi giapponesi si inebriano di questo.
In Wikipedia, alla voce “Salvatore Niffoi”, ho letto: “Esponente di spicco della Nuova Letteratura Sarda”: ma esiste davvero questa nuova letteratura? C’è stata un’ondata di scrittori di successo ma ritengo che questo abbia causato anche qualche danno, come voglia eccessiva di riuscire e ambizione. Io leggo tutto ciò che mi inviano e rispondo sempre con sincerità: ci vogliono dolore e sacrificio e, a volte, schiettamente, devo rispondere ai ragazzi di leggere, prima, di più o di dedicarsi ad altro. Prima di dare il mio parere chiedo sempre se son disposti ad accettare questa verità.
Torniamo alla Passione e al “male di vivere”. Questo male, nelle sue opere, e nel suo cuore, è redento? Può essere redento già in vita, come sembra emergere dal personaggio di Redenta (non a caso) Tiria e dalla storia di Pantumas? Solo la fede può redimerlo? Il male, come la morte, vive in simbiosi con la nostra vita: non vederlo è cecità, il male c’è. È la prima cosa che ha iniziato a fruttificare, innaffiato dal sangue di Abele. Se si vuole, se si riesce a guardare in profondità, il tempo per capire lo hai, si può vivere in grazia di Dio. L’idea del paradiso è concreta, è sotto i nostri piedi: è la poesia, la poesia pura (come diceva tziu Cicittu: “brodo di pulci per sopravvivere”), è la cultura, la letteratura, la famiglia. La morte bisogna affrontarla sempre, devi capire l’ineluttabilità del male e metastoricizzarlo: siamo in un grande mosaico, è vero, ma se stacchi qualcosa c’è sempre spazio per ripartire. Ecco, la vita è ricostruzione tutti i giorni. E tutti i giorni bisogna saper dare qualcosa, qualcosa di immateriale, perché i beni immateriali sono molto importanti: poco quotati in borsa, non vendibili ma ereditabili e trasmettibili, Il nostro esempio, l’unica cosa che rimarrà, vincerà sempre sa murra contro il male.
Passato e futuro: ho ascoltato la canzone musicata da P.Marras, su suo testo, “Il mio passato”: sembra emergere un passato di luce, buono. Può dirci cos’ha lasciato in lei la sua passata carriera da insegnante? Il futuro: è vero che, a breve, terminerà le pubblicazioni e lascerà gli inediti ai suoi figli? L’insegnamento è stato un “mestiere di vivere”: non occupazione ma passione. Cercavo di fare una sorta di trasmissione di neuroni e portavo i ragazzi dappertutto: anche a guardare le pietre e a leggere il passato come un multistrato per sapere da dove veniamo. Loro non li puoi fregare, se non hai passione se ne accorgono. Sì, è vero: non so quando verrà pubblicato il prossimo libro ma so che sarà l’ultimo. Voglio staccarmi dalla contingenza, dalla contemporaneità: il mercato è inflazionato e si è perso il piacere di olfattare il libro. Ora la letteratura è generalista e merce, quindi prostituzione: basta! La mia idea di letteratura è sudore e sangue, abnegazione e sofferenza.
* Tramas de Amistade