di Fabrizio Palazzari
Alla vigilia del Sulkimake Humanities Lab che dal 27 al 29 marzo 2015 si svolgerà a Carbonia presso la Grande Miniera di Serbariu, abbiamo intervistato il Prof. Antonello Sanna, Direttore del Dipartimento di Architettura presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Cagliari. Durante gli anni duemila, infatti, il Prof. Sanna è stato tra i protagonisti del recupero della Grande Miniera di Serbariu e degli spazi pubblici della città di fondazione. Tuttavia, nonostante l’importante riconoscimento ricevuto nel 2011 con il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa, il valore di questa esperienza culturale, sociale e urbanistica è forse ancora misconosciuto.
Quando è stata la prima volta che si è interessato di Carbonia e perchè? Come mestiere mi occupo di recupero del patrimonio edilizio storico. Ho cominciato dai centri storici e poi, negli anni Novanta, mi è sembrato interessante occuparmi di prodotti più recenti, ma di qualità, che erano un po’ più misconosciuti. Mentre quasi tutti sanno che Firenze ha un grande centro storico, e forse anche Cagliari o Iglesias, era invece più difficile trovare qualcuno che riconoscesse a entità fatte per esempio a partire dal 1937, come Carbonia, questo valore aggiunto dell’essere anche patrimonio, oltre che un semplice insieme di volumi costruiti. Carbonia evocava altre cose: evocava la fatica della miniera ed evocava, se vogliamo, anche la fuliggine del carbone. Ma non evocava valori e fu per questo che cominciammo a studiarla.
All’inizio degli anni duemila l’amministrazione comunale decide di partire dal recupero urbanistico e architettonico della città, per avviare un’importante forma di recupero identitario della stessa. Ci potrebbe raccontare come si articolò il progetto? Prima che arrivassimo noi (Dipartimento di Architettura, ndr) l’amministrazione puntava sulla miniera soltanto, poi ci convincemmo insieme che, in realtà, città e miniera erano l’una funzionale all’altra. La città era proprio lì, a soli ottocento metri dalla miniera, era una vera e propria “company town” e, in un certo senso, era la città della miniera. Entrambe rappresentavano un grande progetto e un’utopia, sia pure autoritaria, che aveva degli aspetti molto avanzati. Perchè Carbonia è una città giardino, inserita nel paesaggio, nel verde, interamente progettata, sino all’ultimo dettaglio, da grandi architetti. Ci convincemmo ben presto che se la miniera fosse riuscita a restituire alla città ciò che le aveva tolto, sarebbe stata l’occasione del suo riscatto. Ma questo sarebbe potuto accadere soltanto se anche la città avesse finalmente accettato se stessa. Questo processo sarebbe stato tanto più forte quanto più ampio fosse stato il suo perimetro di azione, che non doveva pertanto essere limitato ai ruderi della miniera, ma avrebbe dovuto includere anche valore umano, piazze, edifici, monumenti.
Da dove iniziò il recupero e che ricordi ha di quella stagione? Cominciammo dalla piazza Roma, una piazza interamente d’autore. Dal Teatro Centrale al Dopolavoro, passando per la Torre Littoria, la Chiesa di San Ponziano e il Municipio: sono tutti prodotti o della mano dello studio di Gustavo Pulitzer, grande progettista triestino, o dello studio Valle-Guidi, i due grandi architetti romani che poi abbandoneranno Carbonia per andare a fare il piano di Addis Abeba. Lasciandola comunque al grande e brillante Eugenio Montuori e alla sua continua ricerca di un razionalismo mediterraneo. Nel 2004 ci fu l’inaugurazione della piazza e fu una delle grandi emozioni della mia vita. Quando uscimmo dal Teatro Centrale trovammo nella piazza migliaia e migliaia di persone, un numero stragrande di abitanti di Carbonia, che invasero quello spazio. Fu in quel momento che compresi come, effettivamente, quell’operazione avesse avuto da un lato un significato culturale e, dall’altro, un significato sociale.
La fondazione di Carbonia ridefinisce il rapporto tra cittadino e abitare e anticipa le trasformazioni che a partire dal secondo dopoguerra, con il programma di edilizia popolare INA Casa, interesseranno Cagliari e i principali centri urbani dell’isola. Come viene ridefinito questo rapporto? In una Sardegna caratterizzata dalla totale prevalenza dell’autocostruzione Carbonia rappresentò, effettivamente, un caso unico. Mentre nel resto dell’isola prevaleva questo rapporto di tipo familiare con la casa, in cui ciascuno è padrone a casa sua, a Carbonia avviene invece il contrario. La gente, infatti, non è padrona neppure del suolo e del sottosuolo. Perchè nel sottosuolo c’è il carbone, e quindi è della miniera, mentre il suolo e le stesse residenze sono pubblici. Da un punto di vista sociologico tutto questo ha sicuramente determinato, soprattutto all’inizio, questo senso di estraneità, tra la città e la sua architettura. I carboniesi hanno avuto bisogno di riappropriarsi degli spazi, a volte con superfetazioni delle stesse case. Tuttavia, seppure di dimensioni modeste, erano comunque, in quel momento, case di eccellenza. In una Sardegna in cui nessuna casa, se non quelle di lusso, aveva il bagno in casa, a Carbonia ogni casa ne possedeva uno. In questo senso fu, senza dubbio, anche un modello sociale.
Da un punto di vista sociologico e della modernità, questo rapporto di estraneità tra cittadini di Carbonia e abitazioni è anche il rapporto tra la Sardegna e la città stessa, mirabilmente descritto nel 1954 da Salvatore Cambosu in “Carbonia, odore di zolfo”, una delle pagine più poetiche ed evocative di Miele amaro. Quanto la Sardegna di oggi è consapevole di quel che Carbonia ha rappresentato per la Sardegna stessa? Diciamo che ho avuto l’impressione, anzi ho la certezza, che quando Carbonia, durante gli anni duemila, sviluppò quel programma di riappropriazione di se stessa, si sia imposta all’attenzione dell’intera Sardegna. La percezione che ci fossero una strategia, un obiettivo di alto profilo e che tutto venisse fatto in funzione di quell’obiettivo si è avuta. Poi, ad un certo punto, proprio quando nel 2011 vincemmo il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa (Carbonia Landscape Machine, ndr), è anche vero che forse quella notizia non è andata molto in giro. E’ passata un po’ sotto silenzio. So che però, alla fine, la consapevolezza c’è.
Il carbone ha dato origine alla città, ma è stato anche la causa della sua crisi e, come ha avuto modo di evidenziare, era giusto che la miniera restituisse quanto sottratto. Tuttavia esiste un altro materiale “locale” che può rappresentare un’importante risorsa identitaria per il presente. Che ruolo ha, a questo proposito, la “trachite rossa” nel caratterizzare l’intero patrimonio residenziale della città? Ci siamo soffermati spesso sul suo ruolo. Carbonia è, paradossalmente, da un lato un luogo di alta tecnologia, con i suoi macchinari e certi elementi costruttivi come le capriate in cemento armato a sezione sottile. Dall’altro, un po’ per ideologia e un po’ per necessità è un luogo dove si utilizza però anche il materiale naturale, che è quello che si cava in loco. E questo dà carattere a Carbonia. Le sue case, infatti, certamente non sono “identitarie”, ma di intelligente hanno questo uso di un materiale povero, come la pietra locale, ma straordinario. Perchè tutto lo zoccolo, tutti i basamenti di Carbonia sono fatti di trachite. E’ proprio questo il vero elemento unificante.
Molte delle sfide della città del XXI secolo passano da una riduzione delle emissioni di Co2 e l’architettura giocherà un ruolo fondamentale, a partire dal recupero degli immobili esistenti. Anche per Carbonia si apre una nuova stagione che, dopo il recupero della miniera e degli spazi pubblici, potrebbe adesso interessare l’edilizia privata. Come vede l’applicazione di elementi di domotica all’architettura per trasformare la ristrutturazione edilizia in rigenerazione urbana? Penso che, in generale, non ci sia altra via. Se alla qualità pubblica non corrisponde anche la qualità privata una città non si salva. Possiamo fare tutte le piazze che vogliamo ma se dopo i cittadini, i tecnici, non percepiscono che anche le case devono stare dentro un certo ordine di logica, il tutto non funziona. Sono inoltre convinto che oggi l’innovazione si deve giocare esattamente, in senso generale, sulla sostenibilità. Pertanto abbiamo bisogno di città non più energivore, come abbiamo fatto, ma energicamente efficienti. Possono diventarlo in vario modo, da un lato con le energie rinnovabili e la riqualificazione delle case in senso energetico; dall’altro, con le città smart e quindi attraverso l’applicazione delle tecnologie immateriali.
Per concludere, nel libro Carbonia. Città del Novecento, gli autori Giorgio Peghin e Antonella Sanna parlano di Carbonia come di una “colonia autoctona”, quasi sospesa tra due paesaggi: un paesaggio millenario che è quello del Sulcis-Iglesiente e un paesaggio costruito e ricostruito, perchè comunque Carbonia cerca di integrarsi nel territorio. Che cosa ci può insegnare questa epopea urbanistica, mineraria e anche sociale? Ci può insegnare che quando c’è un’impostazione qualitativamente valida – e Carbonia lo fu perchè fu fatta con un pensiero urbanistico con dietro anche un’utopia sociale, per quanto autoritaria, e un pensiero urbanistico importante e al passo con le esperienze europee più avanzate – possiamo dire che le realizzazioni costruite in questo clima di qualità poi durano nel tempo. Nel grande disegno paesaggistico di Carbonia – dentro una conca, affacciata su un terrazzo che guarda verso il mare, con questo sistema di spazi pubblici, di verde, che doveva un po’ risarcire la durezza della vita in miniera – è sempre possibile trovare ancora oggi queste qualità. E tutto questo, rispetto invece alla dimensione informe, priva di progetto di certe periferie contemporane, incluse quelle di una parte dell’hinterland di Cagliari, ci può insegnare che non è necessario creare, come direbbe Italo Calvino, delle “zuppe di città” per fare la nuova architettura.
Come il libro di Peghin e di Antonella Sanna dimostra, la vera lezione di Carbonia è che la nuova architettura può essere di livello e di grande qualità. Può interpretare un territorio, anzichè banalmente sovrapporsi ad esso come spesso, invece, dopo abbiamo fatto.