Sullo sfondo le ciminiere delle fabbriche si stagliano infilzando il cielo plumbeo senza sole, mentre una mamma si lascia abbracciare dalla sua bambina e guarda lontano. Tra la natura inerme, gli operai dell’Alcoa sgusciano dalle tende del presidio permanente e si lasciano catturare dall’obiettivo della fotografa milanese di origine sarda Federica Mameli nel reportage Puerto Escuso pubblicato nel settimanale Internazionale. Le foto diventano urgenza che narra il dramma del polo industriale sulcitano, quegli otto chilometri quadrati che dagli anni sessanta con fabbriche e discariche hanno contaminato un angolo di paradiso. Un’esperienza forte che impatta senza pietà nel video, corredo filmico al lavoro giornalistico, realizzato grazie a un drone che plana su una landa mista a deserto acido.
Perché ha deciso di narrare il Sulcis? Il mio reportage è parte di Underground, un progetto nato nel 2012 grazie alla collaborazione tra la Scuola di Fotogiornalismo dell’ISFCI di Roma, presso cui ho studiato, e l’associazione A Sud. L’intento è raccontare fotograficamente le zone d’Italia con il maggior grado di criticità ambientale e rischio sanitario, perché si accendano i riflettori su una realtà impossibile da ignorare. Il conflitto ambientale e umano del Sulcis è lacerante, coinvolge in prima persona residenti e lavoratori.
Portovesme, Portoscuso e le aree limitrofe hanno bisogno di bonifiche e di lavoro che risollevino il disagio economico attraverso un piano urgente di riconversione industriale che rispetti il territorio e i suoi abitanti.
Inquinamento e disoccupazione attanagliano una terra violata in cerca di riscossa? Il Sulcis racconta un contrasto feroce che è difficile da comprendere. Una terra selvaggia e meravigliosa, scelta 40 anni fa come sede di un polo industriale che non ha portato il benessere promesso, ma ha avvelenato senza scrupoli il territorio. Un luogo devastato con una disoccupazione giovanile che oggi supera il 70%: un paradosso, se pensiamo agli obiettivi che il progetto industriale di Portovesme aveva in origine.
Le foto comunicano più delle parole, qual è il segreto per lo scatto perfetto? Le foto immortalano le storie delle persone. Quando lavoro studio e osservo con attenzione ogni cosa muovendomi davanti, dietro e di lato; perché se non capisco a fondo non riesco a raccontare. Più arrivi vicino al cuore della storia, più la foto è vera.
In lei scorre sangue sardo, che rapporto ha con l’Isola? Sin da piccola l’isola per me ha significato estate: il Poetto e la casa della zia a Cagliari. Ora invece ci torno spesso, mi sembra di non conoscerla mai abbastanza. Con questo lavoro ho scoperto un forte senso di protezione che mi lega alla Sardegna. Il Sulcis è da vedere. Fuori stagione poi, è come un viaggio lontano.
Il prossimo progetto? Il reportage Puerto Escuso non è finito: tornerò presto in Sardegna per cercare esempi positivi di bonifica e riconversione industriale. Intanto sto lavorando ad un nuovo progetto legato al tema dell’immigrazione e dell’accoglienza a Palermo. Poi spero l’Africa.
E l’immagine colpisce cristallizzando l’essenza della Sardegna, suolo sacro calpestato che chiede dignità e legittimo rispetto.
* La Donna Sarda