di Pia Deidda
Parto da una domanda complessa che, conoscendo la tua umiltà intellettuale, ti metterà forse in soggezione. Per aiutarci a comprendere la tua poetica, tu come la definiresti? Non ti nascondo l’estrema difficoltà a definire una “mia poetica”. Pare che si smetta di essere scrittori esordienti e si diventi scrittori, autori, poeti, quando sono gli altri a identificarti come tale! Pare che questo sia successo, ma ho quasi timore a doverlo ammettere e pudore a estrinsecare una sorta di manifesto di scrittura.
Ammetto che non avevo dubbi su questa tua introduzione. Però insisto, so che hai tanto da dirci. Non per niente la tua produzione è feconda. A breve vedranno la luce la pubblicazione di ben due silloge. Definire la propria poetica ritengo che sia impresa quanto mai dura e rischiosa, sempre che di una e solo una poetica si possa parlare. È come dover descrivere un proprio organo interno fondamentale e immancabile, come il cuore o il fegato: sai che c’è, come funziona, ma dal vero non l’hai mai affrontato, se non attraverso la lettura consentita da strumenti esterni. Anche della propria poetica, che è essa stessa lente d’ingrandimento e strumento principe per la lettura di sé e dell’altro, si ha coscienza, la si sente, ci si convive, la si vede in azione, nella prassi del fare-dire, ma sfugge perennemente a ogni definizione la sua più profonda essenza. Meglio parlare della formazione del proprio sentire e produrre poetico: nel mio caso duplice, perché quella familiare, dalla nascita è stata fortemente intrisa di lingua, modi, stili e contenuti della tradizione sarda, anche per la presenza di mio nonno materno, poeta estemporaneo in limba, esperto di canto a sa repentina. L’età scolare ha dato avvio a un percorso profondamente orientato in senso classico, poi da me maggiormente orientato verso l’approfondimento della poesia novecentesca, italiana ed europea. Così, mentre da un lato ribolliva la volontà di restare ancorata alle radici linguistiche sarde, un senso di pudore e rispetto per la tradizione familiare mi tratteneva dall’esprimere apertamente una prima, timidissima produzione in limba. Se la scrittura lirica è iniziata molto precocemente, la prima produzione è stata distrutta per far posto a un sistema di rappresentazione dell’Io e del mondo sorretto da ben diverse strutture mentali e linguistiche. Da allora a oggi nulla è cambiato nell’intendimento di ricerca sotteso a ogni verso.
Oggi scrivi quindi sia in limba sia in italiano? Sì. È, tuttavia, definitivamente subentrato un uso più frequente, consapevole e socialmente riconosciuto della lingua sarda, ma entrambi gli strumenti linguistici perseguono lo stesso fine.
Ho letto nel riconoscimento che ti è stato dato ad un concorso poetico: “Le sue poesie, pur essendo quasi tutte brevi, sono squarci lirici, così potenti e suggestivi che aprono la visuale verso temi di ampio respiro” (2° Premio per la poesia edita nel Concorso Internazionale di poesia “Pablo Neruda” 2013/14 indetto dall’Agemina). Ogni verso è una discesa di mille scalini nelle cavità più profonde e insospettabili del proprio essere, è un continuo inabissarsi e riemergere, con un carico capace di illuminare angoli oscuri e di fare progredire conoscenza e coscienza di sé. Il prodotto di tale operazione però, non può restare legato all’individuo che l’ha estrinsecato, ma ha il dovere di essere restituito all’umanità, perché contiene aspetti, si peculiarmente vissuti e rivisitati, ma derivanti dall’essere al mondo insieme agli altri. Non vi può essere egoismo, dunque, nel farsi e nel fare poetico, continua, incessante costruzione e rimodulazione del sé e della propria percezione. Solo può cercarsi, doverosamente, l’apertura di un dialogo con le altre parti dell’essere che siamo noi.
E, ancora leggo: “Sembra quasi che la Melis, attraverso i suoi versi idillico-drammatici, voglia farci sentire il percorso del tempo che costantemente scorre e tuttavia procede tra luci e ombre”. Se si cercasse entro i meandri della produzione una tematica predominante, credo sarebbe ben difficile individuarla in modo univoco, perché da Terenzio in poi abbiamo imparato che niente di ciò che è umano ci può essere estraneo. Ecco perché la mia poesia appare così policentrica: le immagini, i temi, vengono tutti insieme a riemergere, insieme o a turno, variamente combinandosi, dalla natura, originaria e idillica, attualmente alterata e abusata, all’amore, all’odio e ai sentimenti tutti, alla scrittura e alla poesia che spesso si fa metapoesia, alle arti e alla loro convergenza, al mito e alla modernità, alla violenza, alla guerra, alla vita e alla morte che continuamente si rincorrono e abbracciano nel viluppo del tempo. Forse proprio tempo ed essenza sono i cardini di questa continua ricerca, ma il tempo consuma e trasforma, riporta indietro, nella dimensione della memoria, tracce di essenze, che sempre sfuggono a una volontà che non si arrende. Il pensare e ripensare al passato è allora un ripensare il passato, riportandolo, nella dimensione di un razionale onirizzato, sotto il proprio, anche se labile e temporaneo, controllo. Non so se in tutto o in parte possono essere calzanti gli accostamenti che sono stati fatti di alcuni tratti di questo mio produrre, ora a D’Annunzio e Pascoli, per le immagini naturali, l’uso della musicalità, della parola, di certe figure retoriche; dall’altro a Montale e Ungaretti, per certe note dolenti e pessimiste, per una poesia che cerca di sfuggire ogni ricercatezza fine a se stessa, per l’abbraccio forte a quella “poesia pura” a cui tanto mi sento di appartenere, poesia fortemente esistenziale. Chi può dire, infatti, quanti porti sepolti abitino in noi? La forza evocatrice della parola può e deve illuminare la realtà ma, poiché la lezione simbolista non è passata invano, a volte la parola si fa cosa, a volte non può che restare evocativa e allusiva.
* http://www.medasa.it/
Salve , mi piacerebbe quando si tratta di poesia poter leggere con l’intervista all’autrice / autore , alcuni brani .