di Patrizia Boi
Per chi è nato nell’isola, parlare di Fabrizio De Andrè, è un fatto quasi tradizionale. Lui appartiene alla nostra terra come se ci fosse nato e forse anche un poco di più, perché, al contrario di molti di noi, è rimasto lì, per scelta. E noi sardi abbiamo conosciuto da sempre le sue canzoni, le sue ballate, la sua voce calda e triste, come se fossero pietre millenarie connaturate al nostro ambiente.
E se anche ce ne siamo andati temporaneamente nel continente – scrivo questo articolo per invito del Presidente del Gremio dei Sardi di Roma -, la nostra anima rimane lì, abbarbicata tra quelle pietre, tra la vegetazione selvaggia e forse anche tra quelle canzoni.
Così il regista Gianfranco Cabiddu, cagliaritano di nascita e romano d’adozione, ha voluto raccontare la vicenda del cantautore genovese attraverso quell’angolazione che lo lega alla Sardegna. E lo ha fatto tramite il documentario Faber in Sardegna (58’, 2014) trasmesso per la prima volta all’Auditorium della musica di Roma il 23 di dicembre.
In realtà Cabiddu ha cercato di scandagliare le ragioni profonde che hanno tenuto il cantautore genovese per 28 lunghissimi anni in Sardegna nonostante quel fattaccio del rapimento.
Le origini di De Andrè si confondono con la sua appartenenza al popolo sardo. E sì, perché non è casuale che Fabrizio abbia eletto la sua dimora proprio in un anfratto della Sardegna selvaggio e lontano dalla modernità, un luogo alle pendici del Limbara chiamato Agnata – che in gallurese significa “angolo riparato dai venti”.
Nel suo periodo giovanile il cantante aveva abbandonato la comoda casa paterna per andare a vivere nella zona più malfamata del Porto di Genova, in mezzo a scaricatori, delinquenti, drogati e puttane per immergersi con tutto se stesso nel mondo dei derelitti ed emarginati della società.
A lui interessava tutto ciò che rompeva le regole di un potere che corrompeva l’uomo portandolo lontano da se stesso. La vera civiltà per Fabrizio era il rispetto per l’altro, la capacità di darsi delle regole al di là di un ordine costituito. Perciò guardava con tenerezza gli errori umani, con fraternità ogni uomo, fosse anche un assassino, auspicando sempre una possibilità di perdono.
Trovare una sua radice in Sardegna aveva un senso, significava avvicinarsi a un’altra categoria di derelitti: i contadini e i pastori che combattono tutti i giorni per procurarsi un sostentamento. Immersi nella natura, negli ampi spazi, nelle foreste selvagge di lecci e sughere, nei pertugi scavati nella roccia, tra uliveti e vigneti, a contatto con l’essenza, con la natura, con il richiamo ancestrale della vita, in illo tempore, quello dei propri antenati. Fabrizio desiderava connettersi con quella loro verità e spontaneità, lontano dai meccanismi contorti del potere e della burocrazia.
Perciò aveva investito tutto le sue energie fisiche, emotive ed economiche, nella creazione di un luogo dove sfuggire ad una società cannibalizzata dal consumo e dalla velocità, un non luogo dove ascoltare i suggerimenti del vento e i consigli delle nuvole.
Il suo fattore Filippo Mariotti lo vedeva spesso affacciato alla finestra del podere a riflettere guardando il cielo, nell’ora del crepuscolo o della notte.
Lui adorava creare, rannicchiato tra gli aliti della notte e gli sguardi discreti degli alberi, cercando di cogliere l’idea, di rincorrere un sospiro o di lasciarsi andare ai lumi delle stelle.
Amava quel silenzio che lo aiutava a coccolare la sua creatività, ma partecipava alla vita del paese, alle feste dei pastori, alla vendemmia e alla tosatura, al momento del raccolto.
Restava a vegliare di notte se un animale doveva partorire e curava l’azienda agricola e l’allevamento di bestiame come un qualunque altro contadino allevatore legato alla terra, lui, Fabrizio, poco attento a ricavi e guadagni.
Forse all’inizio Dori Ghezzi, si era un po’ stupita di quel suo lato umano, lo aveva seguito “senza una ragione, come si segue un aquilone”, lo aveva assecondato non del tutto convinta che la soluzione fosse quel ritorno alla terra distanti da tutto e da tutti. Eppure, alla fine, anche lei era stata trascinata in quel sogno, coinvolta profondamente e poi travolta e sconvolta dalle vicende accadute. Il rapimento, lungi dall’allontanarli dalla terra, contribuì a rendere più stabile la coppia e a comprendere ancora più a fondo il destino di quegli uomini.
Scrive infatti De Andrè: «La Sardegna è un luogo dove le tensioni sociali esistono. Ma sono temperate dal contatto diretto con la natura e da una profonda moralità che si estrinseca col rispetto di alcuni valori fondamentali, come per esempio l’ospitalità. Per quanto strano possa apparire anche questo ho trovato nei nostri carcerieri».
E così invece che stare a recriminare per il male subito «Passammo quattro mesi sul Supramonte legati a lettucci di foglia», Fabrizio e la sua compagna perdonarono i carcerieri perché capirono che erano loro stessi prigionieri dei mandanti del rapimento e del meccanismo stesso dell’Anonima Sequestri.
Per Dori resta un ricordo molto romantico di quegli anni trascorsi all’Agnata tra i primi passi della piccola Luvi e l’adolescenza di Cristiano, una nostalgia che l’ha condotta a mantenere ancora in vita lo stazzo anche dopo la morte di Fabrizio.
Cabiddu riesce a cogliere tutto questo con bellissime immagini e con le voci delle persone che circondavano Fabrizio in quegli anni.
Dalla narrazione del regista emerge anche un altro tema a lui caro, il pensiero anarchico di De Andrè.
Fabrizio, avvicinandosi a quel maestro di pensiero e di vita che era Brassen, aveva scoperto di essere un Anarchico e per lui questo «vuol dire che uno pensa di essere abbastanza civile per riuscire a governarsi per proprio conto, attribuendo agli altri con fiducia (visto che l’ha in se stesso) le sue stesse capacità… Mi pare così vada intesa la vera democrazia…Ritengo che l’anarchismo sia il vero perfezionamento della democrazia…».
Le canzoni di De Andrè a volte sembrano fiabe o sogni, ma dietro a quell’apparenza è sempre celato un risvolto che mira a mettere in luce un discorso politico e sociale:
«Le mie Nuvole sono quei personaggi ingombranti e incombenti della nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno un terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire la loro posizione di potere».
Ricordiamo, infatti, che De Andrè è stato anche denunciato e costretto a comparire davanti a un Tribunale per via di un signore veronese preoccupato della salute morale delle giovani generazioni e dell’oscenità delle sue cantate.
Filastrocche, ballate, cantate rappresentano «un vasto mosaico sulla solitudine e infelicità dell’uomo», ma anche messaggi per i giovani che spesso vedono in alcune canzoni – Carlo Martello per esempio – «uno spregio all’autorità, uno sberleffo, a ciò che il conformismo e la tradizione considerano sacro».
Come poteva tutto questo non affascinare un regista come Cabiddu? E poi la musica, il gesto del suono, l’armonia di una voce, il richiamo ancestrale dello strumento musicale, come potevano non essere una strada del cuore?
Tutto avveniva e ancora avviene all’Agnata che richiama, grazie al Festival Time in jazz di Paolo Fresu, giovani e vecchi, appassionati e profani, viaggiatori e passanti nelle serate estive del mese di agosto.
E così le canzoni di De Andrè sono state cantate, suonate, declamate da grandi musicisti provenienti da tutto il mondo.
Dopo la proiezione del film-documentario prodotto da Clipper Media in collaborazione con Rai Cinema e realizzato con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission, è Paolo Fresu alla tromba, Rita Marcotulli al piano e Maria Pia De Vito alla voce, hanno regalato al pubblico uno spettacolare omaggio dal vivo a De Andrè. L’interpretazione dei brani del cantautore è stata straordinaria, uno spettacolo nello spettacolo.
Il film uscirà nelle sale nel prossimo gennaio e racconta uno spaccato di Sardegna che vale la pena di vedere anche solo per le immagini e per la musica che sono il giusto abito per vestire la personalità di De Andrè.
privilegio di averlo visto in anteprima all’Auditorium di Roma