di Patrizia Boi
Un’intera giornata al cinema Trevi è stata dedicata venerdì 31 ottobre al regista cagliaritano Gianfranco Cabiddu. L’incontro, organizzato dal Gremio dei Sardi di Roma a cura di Franca Farina nell’ambito della manifestazione “Incontro con il Cinema Sardo”, ha visto la proiezione dei suoi film di maggior successo.
La giornata ha avuto inizio alle 17,00 con la proiezione di Disamistade (1989, 101’), il suo primo film da regista. Si tratta di un lungometraggio ambientato in quella Sardegna arcaica dove il Codice Barbaricino rappresenta la legge non scritta che ancora domina. Nella società agro-pastorale, infatti, le famiglie sono costrette a continui conflitti che conducono gli uomini del paese a farsi giustizia da sé seguendo il meccanismo della vendetta. Ad una offesa subita si risponde, infatti, con un’altra offesa commisurata alla violenza patita. E una volta scoppiata, la faida – disamistade in sardo – si evolve con una logica inarrestabile, perché gli uomini delle famiglie che ne sono coinvolti devono dimostrare alla società di essere dei balentes.
Questi comportamenti sono, di certo, il retaggio della Carta de Logu, secondo cui la vendetta deve essere “proporzionata, prudente e progressiva”. La Carta prescrive infatti: “L’offesa deve essere vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo che vi rinunci per un superiore motivo morale”.
Questa figura del balente un tempo incarnava tutti i valori del Sardo ideale forte e virile, sicuro di sé e sprezzante del pericolo. Nel film di Cabiddu, il protagonista Sebastiano Catte, è diviso tra questa visione ideale che appartiene a suo padre e la tensione di sua madre, interpretata da una mirabile Maria Carta, a superarla. In realtà nemmeno sua madre è pronta ad andare oltre quel Sardo ideale che in fondo ancora condivide. Cabiddu, inoltre, fa intervenire un elemento di modernizzazione rappresentato dal personaggio di Domenicangela, la fidanzata di Sebastiano, una donna brava e studiosa che possiede un punto di vista differente, aperto alla riflessione su altri valori provenienti dall’esterno.
In realtà il balente rischia di diventare un antieroe perché si chiude alle altre culture, è diffidente e irascibile, impulsivo e permaloso: queste caratteristiche sono evidenti nel personaggio di Barore – magnificamente interpretato da Massimo Dapporto -. Tale chiusura, invece, non riguarda del tutto Sebastiano che viene sedotto, oltre che dall’avvenenza della sua fidanzata, anche dal suo pensiero nuovo. Lui, però, non possiede la forza necessaria per riuscire a voltare pagina e diventa quasi la caricatura di quell’eroe del passato che, del resto, nemmeno lo rappresenta come uomo.
Ed è appunto il balente sopravvissuto ai tempi moderni la figura su cui Cabiddu fissa l’attenzione, forse la più controversa e sfortunata del panorama barbaricino, «una figura in bilico», come la definisce lui stesso, tra i valori del passato e le contaminazioni di una società che si apre al mondo. Il balente ha nel sangue l’inquietudine con cui è cresciuto nella bidda, dove tutto funziona secondo lo stile di vita dei suoi avi. Per secoli i pastori sardi hanno, infatti, controllato il gregge attraverso l’inquietudine di chi conosce i pericoli del brigantaggio e dell’abigeato, ma fuori da quel contesto quell’inquietudine e quel comportamento finiscono per essere eccessivi.
Sebastiano è troppo legato alla tradizione per discostarsene, ma ormai fuori contesto per possederla pienamente, perennemente diviso tra il dovere e il volere. La sua esistenza si snoda in bilico tra vecchio e nuovo in una società barbaricina – quella degli anni ’50 – ormai degenerata rispetto ai suoi valori originari.
Cabiddu non è preoccupato di esprimere un giudizio sui doveri tradizionali perché nella bidda una certa dose di invidia e conflittualità rappresenta anche uno strumento di integrazione. Entro certi limiti, infatti, la maldicenza, il malocchio e la stregoneria, hanno un effetto integrante in quanto reprimono comportamenti che potrebbero mettere in crisi i rapporti sociali. Lo scambio e la faida sono, quindi, le due facce della stessa medaglia: lo scambio, sia nel bene che nel male, è un valore fondamentale della Barbagia, direi l’ossatura del contratto sociale. Ha la sostanziale funzione di ridurre l’incertezza dell’esistenza e regolarla con forza. Con questo sistema ogni individuo conosce gli obblighi sociali reciproci e adempiendo ad essi garantisce la sicurezza più di quanto faccia la ricchezza individuale.
Molte scene del film evidenziano momenti di scambio, dove Sebastiano è accolto in nome di una parentela o di un’amicizia, oppure dove nel gioco della faida si stringono alleanze per combattere il proprio antagonista. Le donne, che sembrano stare al margine del mondo delle greggi e di tutto ciò che vi è connesso, rappresentano, invece, il bene strategico per eccellenza, tant’è che per Cabiddu il conflitto generazionale si attua tra la madre di Sebastiano e la fidanzata, insomma tra due donne. Si risolve, poi, in favore di Domenicangela che nel finale si scioglie simbolicamente i capelli per liberarsi dalle catene che impediscono la sua evoluzione. Del resto, in Barbagia non esistono vie di mezzo. O ci si fida interamente o si diffida totalmente, o si sta dentro o si sta fuori, o si ama o si odia: l’equilibrio attraverso cui si passa da un sentimento all’altro è molto delicato così come è precaria la situazione del pastore nel possesso delle greggi: qui vi è la citazione del film – peraltro molto caro a Cabiddu – Banditi ad Orgosolo.
La questione della vendetta sarda è però anche il pretesto per puntare la macchina da presa su quel che resta di quella Sardegna arcaica, dei suoi paesaggi selvaggi e impenetrabili, dei personaggi austeri di quel mondo rigoroso e grave. Le scene – ambientate, come già detto, negli anni ’50 – sono descritte con poesia ponendo molta attenzione sulla fotografia e sul dettaglio dell’immagine. La colonna sonora di Nicola Piovani poi è fortemente curata dal regista – anche grazie alla sua formazione musicale -: essa introduce lo spettatore nella storia, né esalta i momenti cruciali e fissa nella sua memoria i gesti degli attori e dei personaggi chiave del racconto.
Si comprende come questo film abbia concesso la notorietà a Cabiddu nel suo nuovo ruolo di regista. Fino a quel momento, infatti, il suo percorso era stato intenso e variegato, aveva lavorato come musicista, come etnomusicologo, aveva collaborato con Eduardo per il teatro e poi con i migliori registi del cinema italiano come tecnico del suono, ma non si era ancora cimentato con una regia tutta sua.
Sono certo i suoi studi da etnomusicologo, comunque, che lo hanno condotto all’idea del film successivo, trasmesso subito dopo Disamistade senza dar tempo allo spettatore di riflettere sulle emozioni regalate dalla prima pellicola.
Passaggi di tempo – Il viaggio di Sonos ’e memoria (2005, 85’) è, infatti, un film impregnato di musica e tradizioni in ogni suo recesso. Si tratta di un documentario, candidato anche al David di Donatello come miglior film documentario nel 2005, costruito con le immagini che Cabiddu ha reperito all’Istituto Luce.
Cataste di pellicole sono state studiate dal nostro regista per regalarci un ritratto della Sardegna ormai dimenticato da questi nostri tempi. Cabiddu, nell’esaminare quei fotogrammi, ha osservato che in secondo piano rispetto alle scene principali, emergevano figure, facce, scene di vita e mestieri di una Sardegna che oggi non esiste più. Il suo primo lavoro è consistito, quindi, nell’isolare queste immagini che si srotolavano sulla pellicola – facce comparse casualmente sulla scena, dettagli apparentemente insignificanti – e portarle in primo piano con la sua lente sottile per catturarne il mistero mai svelato.
I volti di donne, di artigiani, di bambini sono emersi, immortalati com’erano nello loro originaria genuinità e sono stati fatti vivere attraverso la musica.
La vera originalità di questo film è stata, quindi, l’interpretazione di tali immagini attraverso le musiche tradizionali e più moderne dei migliori musicisti sardi, dal jazzista Paolo Fresu al suonatore di Launeddas Luigi Lai, spaziando dalla fisarmonica di Antonello Salis alla voce di Elena Ledda, dai cantanti del coro di Santulussurgiu ad altre contaminazioni folcloristiche più moderne.
Le musiche composte per dar voce al film, hanno avuto un tale successo che gli artisti protagonisti della sua colonna musicale hanno girato il mondo in un concerto straordinario: lo spettacolo ha parlato tante lingue, da Mosca a New York, dall’Irlanda a Singapore, da Berlino a Parigi. La vera sorpresa, poi, è stata che la lingua della musica sarda e dei suoi balli è stata accolta con successo anche dalle altre culture. Le scene che scorrevano sullo schermo raccontavano, infatti, anche il passato connaturato in quelle realtà: il messaggio del film muto, a cui la musica aveva dato voce, poteva essere compreso, quindi, dovunque.
L’esperienza di lavoro corale condiviso, il clima di serena collaborazione e l’impegno appassionato di ognuno che ha stimolato la creatività dell’altro, sono stati il vero arricchimento del regista. Quest’emozione emerge dalla visione del film e trasmette allo spettatore la voglia di essere parte di questo progetto, di questo spartito di note che risuona nell’anima di chiunque.
Durante il dibattito svoltosi subito dopo il film – introdotto dal Presidente del Gremio dei Sardi Antonio Maria Masia e moderato dalla regista Rai Alessandra Peralta -, l’attore Vanni Fois ha fatto rilevare quanto fosse piacevole interagire sul set con il Regista Cabiddu.
Egli riesce ad instaurare sempre un clima amichevole e leggero non perché tutto venga lasciato al caso, ma perché Cabiddu conosce molto bene il lavoro di tutti i reparti – probabilmente grazie alla posizione privilegiata di fonico che negli anni gli ha consentito di osservare ogni tecnica da una punto di vista esterno –. Questo gli consente di tenere sotto controllo la situazione prevenendo difficoltà e dubbi di ogni sorta e di girare le scene con una grande velocità.
Dalle domande poste al regista sul suo film “La stoffa dei sogni”, – attualmente in fase di preparazione – tratto da una libera rielaborazione de La Tempesta di Shakespeare nella interpretazione di Eduardo, è evidente la volontà di Cabiddu di riflettere sempre sulla realtà sarda.
L’isola dell’Asinara dove il film è stato ambientato, diventa anche l’occasione, come sostiene lo stesso regista: «per raccontare un frammento di storia della Sardegna: l’usurpazione tipica del colonialismo appartiene a quest’isola, anche gli abitanti dell’Asinara sono stati evacuati dalla loro terra per lasciare spazio al carcere. Quindi potevo riflettere e far riflettere lo spettatore con le parole stesse di Shakespeare sul tema dell’esproprio fatto dallo Stato alla Sardegna per il carcere o per le basi militari o per qualunque altro uso».
Masia nel suo intervento ha ricordato l’impegno profuso da Cabiddu per la Sardegna, elenca tutte le iniziative trovate nell’archivio del Gremio, dove l’artista ha partecipato sempre con entusiasmo e professionalità tanto da esserne stato fatto diventare socio onorario.
Il dibattito è stato molto interessante e, dopo un brindisi sardo accompagnato da salsicce e pane carasau, è stato seguito dal terzo film Il figlio di Bakunin (1997, 89’).
Si tratta del film più politico della serata: Cabiddu racconta tra le altre la sua passione per la Sardegna mineraria ormai in crisi. Il film è stato prodotto da Tornatore ed è liberamente ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore sardo Sergio Atzeni. La storia del minatore Tullio Saba offre lo spunto per mettere a fuoco la questione delle miniere nella società fascista degli anni ’40. La storia si dipana con il metodo dell’intervista in forma di racconto orale. In realtà il protagonista del film parla pochissimo, ma compie delle azioni mentre si parla di lui. Ognuno lo descrive secondo la propria visione personale mettendone in evidenza luci e ombre. La figura che ne viene fuori oscilla tra l’eroe e l’antieroe: viene dipinto in maniera contrastante a seconda del rapporto che lui aveva stretto con chi lo ricorda. Come dice lo stesso Cabiddu:
«Nel racconto orale di tipo fantastico, però, il passato è evocato, quindi per tradurlo in linguaggio cinematografico ho fatto in modo che il testimone che racconta una storia abbia la storia stessa che si srotola a lato, cioè i personaggi evocano qualcosa che è ancora viva dentro di loro…»
E poi prosegue:
«…un eroe non si può non farlo vedere, e io ho scelto il rischio di mostrarlo».
E come direbbe Guccini «gli eroi sono tutti giovani e belli»: così, infatti, viene rappresentato Tullio. Da rilevare la bellezza delle scene corali in cui i minatori o le donne del paese si riuniscono nelle piazze rendendo con i loro abiti, con i loro gesti e con i loro sguardi, testimonianza di un mondo che ancora oggi si può leggere negli occhi della gente e di quel germe dell’anarchia che sovente serpeggia nella personalità dei sardi.
In realtà Tullio Saba non è altro che una figura autobiografica che lo scrittore Sergio Atzeni ha voluto ritrarre in memoria di suo padre, militante nel PCI, che una vita simile in qualche modo aveva vissuto.
Per Cabiddu è stato l’omaggio al suo amico scrittore scomparso prematuramente in mare proprio qualche ora prima della Prima del concerto di Sonos e memoria.
La serata si è conclusa entro la mezzanotte proprio mentre stavano per iniziare i festeggiamenti del Capodanno Celtico, un momento in cui il mondo dei vivi incontra il mondo dei morti…
Per noi che eravamo presenti è stato un modo per ricollegarsi con la memoria di un mondo estinto ma che – almeno a noi sardi – ci vive ancora dentro.
Il prossimo appuntamento da non perdere è per il 23 novembre all’Auditorium Parco della Musica dove sarà trasmessa la Prima del documentario girato da Cabiddu sulla figura di un altro grande scomparso: il cantautore Fabrizio De Andrè.
Stavolta non si tratta di un sardo per nascita, ma di un personaggio stabilitosi in Sardegna per scelta: l’isola lo aveva accolto eppure l’Anonima Sequestri, un’associazione a delinquere indipendente basata su regole tradizionali come il codice barbaricino, lo aveva rapito…
http://wsimag.com/it/spettacoli/11822-intervista-a-gianfranco-cabiddu