A Treviso, presso l’auditorium Stefanini, Viale III Armata, 5 (Borgo Cavalli), nei giorni sabato 8 e sabato 15 novembre 2014, dalle 18.00 alle 19.30, due incontri culturali su tradizioni popolari in Sardegna. Relatore: prof. Carlo Solinas. «Si parlerà di divinità e di eroi popolari che nella cultura agropastorale sarda dei secoli passati, soprattutto nelle popolazioni più interne, possono diventare dei miti e in molti casi vere e proprie divinità ed essere adorati nei luoghi sacri. Tra i miti più conosciuti: il Sardus Pater, venerato come dio cacciatore; gli Shardana o popolo del mare (la loro patria era il mare e la Sardegna); Jolao, un eroe senza patria che veniva da Tebe e che fondò Olbia; Aristeo, figlio del bellissimo dio Apollo che veniva dalla Grecia e che insegnò ai sardi l’allevamento delle api e la produzione del formaggio; Dedalo, architetto che arrivò in Sardegna dopo il famoso volo con Icaro e che favorì la costruzione dei nuraghi. E poiché alla religione spesso si mescola la superstizione, le figure religiose appaiono ai sardi come fonte di protezione e di aiuto. La superstizione è nata con l’essere umano che già dalle sue origini sentiva il bisogno di una forza interiore per superare la paura dell’ignoto e i pericoli quotidiani. Gli uomini hanno sempre affidato ai riti i momenti più importanti e più critici della vita, come anche le grandi paure: la morte, la vecchiaia, la malattia, la fame, la guerra. Per superstizione s’intende una serie di comportamenti codificati che hanno lo scopo di annullare il male, le disgrazie o gli eventi funesti nella vita quotidiana degli esseri umani, ma anche quello di provocare il male. Con questi comportamenti che spesso diventano dei rituali si allontana la sfortuna o si cerca di procurarla ad altri. Forse non tutti sanno che il Natale iniziava col solstizio d’inverno e andava avanti fino all’Epifania, la tradizione vuole che in questo periodo le donne che conoscevano l’arte della divinazione e della cura, dei brebus o formule e della medicina dell’occhio passassero i propri segreti alle future praticanti, a patto che percepissero l’approssimarsi della morte. L’isolamento dovuto all’insularità, soprattutto presso le popolazioni dei paesi più interni, ha determinato il fiorire di superstizioni e credenze popolari che accompagnano il popolo sardo da secoli e che, in alcuni casi, ancora resistono. Is iscrittus erano foglietti con formule protettive, venivano ripiegati più volte e riposti in piccoli contenitori di tela (pungas) da portare addosso. Talvolta recavano parole o frasi della Bibbia, altre volte erano scritti senza un particolare significato sacro e spesso di origine pagana. Vi erano tanti riti, forme, invocazioni e preghiere specifiche (i brebus) per allontanare o sconfiggere le avversità, consistevano in comportamenti codificati che avevano il potere di trasformare il male in bene, la sfortuna in fortuna e si potrebbero paragonare alla superstizione dei nostri giorni. Tali pratiche hanno sempre avuto un fine sociale e un coinvolgimento emotivo. Già nella civiltà del neolitico era in uso appendere fuori dalle capanne dei corni di animale che avevano la funzione di allontanare gli spiriti maligni. I corni erano simbolo di fertilità abbinata alla vita, al successo, alla forza. Le ossa, i denti, i crani furono i primi amuleti, davano al possessore senso di sicurezza e fiducia nel proprio destino. Tra le pratiche più conosciute vi è quella de s’ogu liau (malocchio). Colpire con s’ogu liau consisteva nel provocare un danno con lo sguardo che veicolava il pensiero malevolo della persona. Secondo la tradizione il malocchio non poteva essere fatto da un membro della propria famiglia dello stesso sangue ma poteva esserlo nel caso di un cognato oppure di una nuora. Sembra che le vittime più facili da colpire siano le donne e i bambini mentre i portatori di malocchio più temuti erano gli uomini di cultura e i preti. Questi, venivano potenzialmente etichettati come “oghiadores” (occhiatori), cioè coloro che sono in grado di lanciare il malocchio. I neonati erano i più colpiti da s’ogu liau, di solito involontariamente e inconsapevolmente. Quando le puerpere ricevevano una visita e il visitatore faceva dei complimenti sulla bellezza, sul carattere o sulla tranquillità del neonato, sottovoce le mamme imprecavano per neutralizzare l’eventuale effetto malefico e, appena la persona andava via o era di spalle, sputavano tre volte di seguito per scongiurare il malocchio che la persona avrebbe potuto procurare al bambino. Oltre ai gesti, hanno avuto diffusione tutta una serie di oggetti, che nel tempo hanno acquisito valore socio-culturale, definiti “amuleti”, tutti riconducibili al contrasto del malocchio, costituiti da materiali diversi, sia poveri che ricchi (abbinati spesso a metalli preziosi), diventando così amuleti/gioielli da indossare abitualmente. Lo sguardo di ammirazione poteva essere rivolto anche verso un animale o una cosa, volontariamente o involontariamente. Il malocchio si manifesta con malessere improvviso, svenimento, forte mal di testa, febbre alta non giustificata, cattivo umore ecc. Piante che si seccavano, animali che si ammalavano. Se una persona sapeva di provocare il malocchio, subito dopo ogni apprezzamento doveva pronunciare l’espressione “Chi Deus du mantengada” (Che Dio lo protegga); se il lodatore dimenticava di pronunciare tale espressione doveva toccare la persona, l’animale o l’oggetto. Oltre al malocchio vi è una lunga lista di altri disturbi che potevano essere “curati” dalle/dagli operatori: i traumi articolari, lo spavento, le ustioni, la sciatica, i porri, le emorroidi, il fuoco di Sant’Antonio, le malattie della pelle e tanti altre. Inoltre era molto diffuso l’uso di erbe medicinali spesso combinate con altri ingredienti: impiastri di olio, incenso e cera contro l’eritema della pelle, ritenuto la conseguenza del contatto con le anime del purgatorio; della malva per purificare il sangue, dell’asfodelo contro i reumatismi, del suo succo con quello del giglio e del lino contro i calli, del fico contro l’ernia, dell’alloro contro il mal di pancia, dei semi di lino bolliti contro le bronchiti, di varie erbe in una bacinella d’acqua bollente contro l’influenza».
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