UN’ANTICA TRADIZIONE TRA SACRO E PROFANO: IL 2 NOVEMBRE, IS PAISCEDDASA


di Emanuela Katia Pilloni

Un paese gioiosamente animato dal chiacchiericcio dei bambini, i campanelli che suonano continuamente e un ritornello, un’antica litania, divenuta ormai un ossessivo adagio: “paixeddasa!” Il 2 novembre a San Sperate è Festa grande, ricorrenza imperdibile per i piccoli in età scolare, che, muniti di zaini, affollano le vie del paese in cerca delle leccornie che gli abitanti si premuniscono di far trovare loro. Una consuetudine festosa, spensierata, quasi immemore della sua origine, della sua primitiva funzione, ma pur sempre un ritus “un ordine prescritto” dei rapporti fra la divinità e gli uomini e degli uomini fra di loro, e, come tale, ligia ad un preciso cerimoniale. Ecco quindi che la raccolta si deve svolgere nelle ore mattutine, entro mezzogiorno, ad opera di bambini non ancora adolescenti, che di casa in casa ottengono dolci, frutta di stagione o piccoli doni, ma solo in seguito alla precisa richiesta delle paixeddasa: su questo punto non si concedono deroghe! E gli adulti? Mal tollerati, sono ammessi solo per accompagnare i più piccini, non ancora in grado di affrontare, da soli, una tale avventura.

Il 2 novembre è dunque, per la nostra comunità, festa di bambini, semplice, chiassosa ed entusiasta, in apparente contrasto con la solennità del giorno in cui, in tutto l’orbe cristiano, si commemorano i cari estinti. Una grave mancanza di rispetto? Un oltraggio alla memoria dei defunti? Un’inosservanza dei precetti religiosi? Tutt’altro. Quest’antichissima tradizione, che affonda le sue radici nella notte dei tempi, è un relitto di remoti culti pagani in onore dei morti che la Chiesa seppe fare propri, dopo averli epurati degli aspetti più marcatamente idolatri. Se infatti non sfuggono le analogie con la ben più celebre e consumistica Halloween, con i bambini protagonisti di una questua porta a porta di dolci, questa volta notturna, va ricordato che anch’essa tradisce una vetusta origine e ci riporta ad un sostrato celtico ed una ricorrenza celebrata la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre, la cosiddetta «Samhain». La vigilia di Samhain era la festività principale del calendario celtico, rappresentava l’ultimo raccolto prima dell’arrivo della fredda stagione invernale, in occasione della quale tutti i focolari domestici venivano spenti per poi essere riaccesi dal sacro falò dei druidi, i sacerdoti della comunità. Secondo i Celti, dunque, in quella notte, il mondo si veniva a trovare in un confine extratemporale, sospeso tra il vecchio e il nuovo anno; il limen tra il regno dei morti e quello dei vivi si assottigliava a tal punto da lasciar passare i defunti che facevano così ritorno alle loro famiglie. Quando i Romani entrarono in contatto con queste popolazioni, identificarono Samhain con la loro festa dei morti (Lemuria) che era però celebrata nei giorni 9, 11 e 13 maggio. Con la cristianizzazione venne istituita la festa di Ognissanti (1 novembre), mentre il 2 novembre si celebra il Giorno dei morti. Echi di questo legame con l’aldilà sono rintracciabili nelle varianti onomastiche di questa ricorrenza presenti in Sardegna: is Animeddas Su ‘ene ‘e sas ànimas o su Mortu Mortu nel nuorese, su Prugadòriu in Ogliastra. Ma anche nelle formule utilizzate per la questua delle golosità, si può evidenziare il nesso con il mondo dei trapassati: “seus benius po is animeddas”; “mi das fait po praxeri is animeddas”; “seu su mortu mortu”; “carki cosa po sas anima”; “peti cocone”.

Dall’altro canto le corrispondenze non mancano neppure con la tradizione messicana, che fonde antichi riti precolombiani a tradizioni cristiane. Particolarmente significativo, è l’allestimento di altari, con la fotografia del caro estinto, imbanditi con cibi e bevande, in cui si ripropongono i due elementi costitutivi, la mensa e il cibo, di un antichissima usanza, prima pagana in seguita adottata dal cristianesimo delle origini, ilrefrigerium: un insieme di pratiche in memoria del defunto, atti ad ottenerne il ristoro dell’anima, la sua beatitudine eterna e la sua intercessione (refrigerare, nel senso appunto di dare refrigerio, cioè sollievo dal punto di vista fisico e spirituale). Per adempiere al rito, nelle festività previste per i defunti, o negli anniversari di morte, i parenti si radunavano in spazi apposti, connessi alle sepolture per consumare banchetti e libagioni di vino, latte, miele. Poiché si riteneva che il defunto potesse prendere parte a questo pasto, le tombe venivano talora dotate di fori e tubi che consentissero l’introduzione di liquidi e cibi. Se il valore della libagione era essenzialmente religioso, la pratica del pasto consumato presso la tomba, aveva un alto valore sociale oltreché un importante risvolto pratico, concedendo sollievo a coloro che si recavano a visitare i cimiteri, spesso molto lontani dalla città. Il degenerare però di questi pasti rituali in autentiche gozzoviglie e il legame troppo stretto con omologhe pratiche pagane, portò ben presto la Chiesa di Roma a proibire i conviti funebri, che tuttavia, in Sardegna, si protrassero più a lungo come sembra accertato per Cornus, dove, il rito è attestato almeno sino agli inizi del VII sec. d.C.

La relazione dunque tra morte e festa, cibo e sepoltura, nella nostra isola, non è mai venuta del tutto meno e sopravvive ancora, beffarda, nel riso gioioso dei bambini che con trepidazione attendono il 2 Novembre per rinnovare, inconsapevoli, un voto ancestrale di amore e comunione con i cari estinti: is paisceddasa, appunto.

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