LA COLLANA “LE GUERRE DEI SARDI” EDITA DALLA “NUOVA SARDEGNA”: LA RELAZIONE DI SALVATORE TOLA AL CONVEGNO AL CIRCOLO “LOGUDORO” DI PAVIA

nella foto del convegno al circolo "Logudoro" di Pavia, da sinistra: Gesuino Piga, Salvatore Tola e Paolo Pulina


di Salvatore Tola

Invitato dal Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia, presieduto da Gesuino Piga, nel pomeriggio di sabato 4 ottobre, di fronte a un nutrito numero di soci, tra i quali anche  due rappresentanti dei vertici della FASI, Filippo Soggiu (presidente emerito), e Paolo Pulina (responsabile culturale), ho svolto la seguente  relazione sul tema  indicato nel titolo.

La collana “Le guerre dei Sardi”, che è stata distribuita dal quotidiano “La Nuova Sardegna” nei mesi scorsi, era in progetto già da qualche tempo. Ma il ritardo nel pubblicarla è stato provvidenziale, perché ha fatto coincidere l’uscita dei volumi con le prime ricorrenze centenarie della Grande Guerra. Il progetto e la direzione editoriale sono del professor Manlio Brigaglia, che è tra l’altro un grande esperto della materia, conosce una per una le date delle azioni e delle battaglie; sarebbe stato il più adatto a questa presentazione; io, che ho collaborato alla redazione dei volumi, mi considero qui in sua rappresentanza.

Va ricordato che, al primo annuncio della pubblicazione, ci sono arrivate critiche da qualche animo pacifista secondo il quale parlare delle imprese dei sardi in guerra può significare parlare bene della guerra. Dico subito, e riprenderò il discorso più avanti, che è proprio dalla descrizione dei fatti che può derivare l’orrore, e quindi l’avversione per ogni e qualsiasi evento bellico. E aggiungo che per noi sardi resta sempre importante continuare la riflessione di tanti nostri intellettuali, a partire da quelli del movimento combattentistico e neo-sardista, sul perché siamo stati tanto pronti al sacrificio, specie nel corso della Grande Guerra; e quindi se abbiamo ricevuto abbastanza in cambio di quello che avevamo dato.

Ma passiamo senz’altro a vederli uno per uno, i dodici volumi che compongono la collana.

Il primo, il secondo e il terzo volume riproducono l’opera “Il valore dei Sardi in guerra” di Medardo Riccio, uscita in due volumi nel 1917 e nel 1920. Riccio, che fu definito da Arnaldo Satta Branca «nostro indimenticabile Maestro di giornalismo», fu nominato direttore della «Nuova» poco dopo la fondazione e mantenne la carica fino al 1923, quando fu raggiunto da una morte improvvisa. La sua idea era quella di compiere un lungo excursus storico, e di fatti comincia la sua  trattazione  dalle più lontane epoche.

Il primo volume prende le mosse da Amsicora e ci conduce, toccando naturalmente le guerre risorgimentali, fino a quella di Libia.

Il secondo è incentrato tutto sulla Guerra del 1915-1918 e quindi sulle imprese della  Brigata “Sassari”. Racconta le varie azioni, a San Michele, a Bosco Cappuccio, al Bosco Lancia e al Bosco Triangolare, fino a quando, nel novembre del 1915, dopo la conquista delle postazioni delle Frasche e dei Razzi, per la prima volta un bollettino del comando generale  fa menzione di un reparto, ed è il reparto isolano: «Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari resistettero però saldamente sulle conquistate posizioni e con ammirevole slancio espugnarono altro vicino e importante trinceramento detto dei Razzi».

La parte finale del secondo volume e tutto il terzo sono occupati dalle motivazioni dei riconoscimenti che venivano via via assegnati ai nostri militari: medaglie d’oro, d’argento e di bronzo, e altre onorificenze. Questi riconoscimenti erano molti, anche in proporzione alla popolazione, la Sardegna era «tra le prime regioni d’Italia che ottennero il maggior numero di medaglie». La lettura di questa parte è avvincente perché, a parte l’ovvia retorica della scrittura, vi sono descritte le imprese. Sono brevi testi che riportano in apertura nome, grado, corpo d’appartenenza e provenienza.  Si vede così, per prima cosa, che c’è un’equilibrata distribuzione “geografica” dei meriti, che tocca tutte le contrade dell’isola: alla medaglia assegnata al soldato Romolo Bitti di Nule seguono quelle dei sottotenenti Gavino Fiori di Dorgali e Antonio Marogna di Codrongianos, del capitano Giovanni Oggiano di Sassari e del soldato Francesco Puddu di Arbus.

Nel seguito si apprendono quali erano i “modi” con i quali i singoli meritavano i riconoscimenti. Intanto erano spesso persone che avevano accettato volontariamente, o si erano proposte, di partecipare a un’azione rischiosa. Poi, molte volte, insistevano per continuare a combattere anche dopo essere stati colpiti; non solo, ma incitavano alla battaglia compagni e vicini. E molti erano quelli che correvano gravi rischi per recuperare, sotto l’incalzare del fuoco nemico, i compagni colpiti o i corpi di quelli deceduti.

L’assegnazione delle medaglie rispondeva anche a un criterio di “democraticità”, perché ai graduati, spesso laureati o anche nobili, si alternano soldati e caporali di umili origini. Accanto al cavalier Adolfo Danese, di Sassari, maggiore comandante, e del cavaliere nobile Tito Eligio Diana, di Mandas, capitano, troviamo così Giovanni de Albis,  caporale di Lula che, «offertosi volontariamente per collocare tubi esplosivi nei reticolati nemici, tentava la prova per ben sette volte». Né si può dimenticare Raimondo Scintu, caporale ciclista di Guasila, che prima solo e poi con l’aiuto dei compagni fece prigionieri alcune decine di nemici.

Il quarto e il quinto volume comprendono la “Storia della Brigata Sassari” nella quale  Giuseppina Fois, docente di Storia nell’Università di Sassari, compie rispetto a Riccio una duplice messa a fuoco: si concentra infatti sulla guerra 1915-1918 e, come dice il titolo, sulla vicenda della Brigata “Sassari”.

Si tratta di un’opera composita. La prima parte è una panoramica delle interpretazioni dei fatti

che si rintracciano in articoli e libri pubblicati durante la guerra e in seguito: ci sono i ricordi di Emilio Lussu e di Camillo Bellieni; i resoconti dei corrispondenti dei maggiori giornali; i memoriali dei vari Pascazio, Graziani, Motzo; sino ad arrivare agli studiosi contemporanei, primo tra tutti Michelangelo Pira, che si sono impegnati nel “leggere” il significato di quegli eventi. Apprendiamo così che, costituiti i reggimenti 151 e 152, i sardi che vi confluivano si vennero mano mano caratterizzando e distinguendo. Emergevano doti di adattamento e di resistenza fisica, e affioravano comportamenti ispirati ai codici delle comunità d’origine: la vita quotidiana intesa come lotta senza quartiere contro le avversità; il comportamento individuale ispirato all’idea della balentìa, l’impresa che nasce dal dispiegamento di doti eccezionali. Segue una parte a carattere più oggettivo, ossia una cronologia della guerra, con notizie sulle singole azioni (Bosco Cappuccio, il Trincerone ecc.) tratte dai Diari redatti giorno per giorno nei comandi.

Un’altra sezione è volta a verificare come le azioni della “Brigata” venivano viste dalle più diverse angolature. Ad esempio Luigi Barzini, forse il più famoso degli inviati speciali, arrivò a raccogliere la testimonianza di un ufficiale austriaco: «Ci sono venuti addosso con la baionetta fra i denti… silenziosi, terribili, pronti ad adoperare qualunque arma…». E Benito Mussolini, anche lui allora giornalista, descriveva il trionfo dei “sassarini” accolti dagli abitanti di Vicenza dopo la conquista di Col del Rosso: «I piccoli, silenziosi, eroici figli dell’isola ferigna sono stati salutati da tutta la popolazione che si è recata in massa a incontrarli».

L’opera così ampia e composita comprende anche parti dedicate alle testimonianze dei reduci e alle poesie scritte da poeti rimasti in Sardegna e da altri che fecero l’esperienza della prima linea.  

Il sesto volume, opera di Giuliano Chirra, si intitola “Trattare ke frates kertare ke inimicos”. Sembrava che non ci fosse più nulla da dire sugli eventi della Grande Guerra, e invece questo appassionato studioso della materia riesce a farcene conoscere altri aspetti interessanti.

Già il titolo è un richiamo ai modi e alle norme di vita delle comunità di origine: e difatti l’autore, che è nato a Bitti, descrive in apertura i tratti della vita in Sardegna dei contadini e dei pastori nei giorni in cui venivano chiamati alle armi. Quindi ci dà i dettagli della stessa chiamata alle armi, e poi delle dotazioni militari, dalle divise alle fasce, dall’elmetto al famoso fucile “novantuno” e relativa baionetta; e, dato che è anche abile disegnatore, i testi sono accompagnati da utili raffigurazioni degli oggetti. C’è anche un capitolo sulle regole disciplinari, che erano ovviamente molto dure e contemplavano in più di un caso la pena di morte: ad esempio per il militare «che in faccia al nemico si sbandi, abbandoni il posto o non faccia la possibile difesa».

Il libro racconta quindi le imprese della Brigata “Sassari” e degli altri reparti in cui militavano i sardi; ma sono altrettanto interessanti le rievocazioni delle ripercussioni che la guerra aveva nelle comunità d’origine: Chirra le conosce attraverso la memoria orale dei paesi della Barbagia. Come la storia di quel soldato che, venuto in licenza dopo essere stato impegnato in azioni a fuoco, preferì darsi alla macchia piuttosto che tornare al fronte; o le discussioni che si accendevano tra i militari mobilitati e quelli che, in servizio al distretto di Oristano, erano ritenuti imboscati, e per di più si vantavano delle grandi mangiate di muggini che avevano occasione di fare.

Il libro si chiude con una parte ancora più drammatica e struggente: l’elenco dei mortos in terra anzena, ossia l’elenco di tutti i caduti sardi, oltre 1800, che l’autore ha trovato sepolti, nel corso di più viaggi e lunghe ricerche, nei cimiteri militari di tutta Europa.

Il settimo e l’ottavo volume riproducono l’opera “Fanterie sarde all’ombra del tricolore”, di Alfredo Graziani, soprannominato Tenente Scopa, pubblicata per la prima volta nel 1934.

L’autore, nato a Tempio da famiglia borghese, appena adempiuto al servizio di leva in cavalleria, fu mobilitato per la guerra. Chiese di essere trasferito alla “Sassari”, ma conservando la divisa da cavalleggero. Si distinse ideando tra l’altro le “azioni ardite” di volontari che uscivano di notte per far saltare i reticolati nemici; ferito gravemente, fece di tutto per tornare a combattere prima della guarigione.

Paragonato a Lussu per il prestigio che aveva tra la truppa, pubblicò il suo libro lo stesso anno in cui usciva “Un anno sull’Altipiano”: non nomina il collega, perché avendo aderito al fascismo si trovava nello schieramento opposto, eppure le due opere hanno punti in comune. A comandare è infatti la fedeltà ai fatti, e la retorica di regime non gli impedisce di descrivere scene orribili e raccapriccianti, né di denunciare, come faceva Lussu, errori dei superiori e manchevolezze nelle dotazioni e nei rifornimenti.

A chi non si fosse fatto un’idea di quel conflitto basterà leggere della notte in cui il suo reparto si trovò in un sentiero che era un cumulo di cadaveri dei nemici; cadaveri già mezzo disfatti che non si poteva fare a meno di calpestare, sfiorare, toccare; o il lungo elenco delle volte in cui il “fuoco amico” falciò decine di soldati; o ancora quando, dopo lo scontro di monte Zebio, ci si rese conto che la Brigata era pressoché annientata. E poi ci sono le foto scattate da lui stesso, tra cui quelle dei reticolati in cui si vedono impigliati i cadaveri dei tanti che non erano riusciti a oltrepassarli.

La narrazione è in forma di diario, racconta tra l’altro di quando venne raggiunto da una granata che gli provocò una grave ferita al piede. Conosciamo così anche le disavventure cui andava incontro chi aveva bisogno di cure: a partire dalle «cinque ore di barella prima di arrivare alla Sezione di Sanità!». In appendice al secondo volume sono riportate le lettere scritte tra il 1948 e il 1964 da Ignazio Sanna al poeta sassarese Salvator Ruju. Sanna, medaglia d’argento per un’azione nella quale aveva perduto al vista, era stato celebrato da Ruju nel poemetto “L’eroe cieco”.

Il nono volume, Alla fine dell’impero, è di Costantino Demuru e ha per protagonista suo padre Peppino, che ebbe vita poco fortunata. Contadino-pastore a Dualchi, dove era nato, andò volontario in Africa Orientale, con l’idea di tornare dopo pochi mesi ma, fatto prigioniero dagli inglesi, riuscì a rientrare solo nel 1947. Si sposò ed ebbe figli ma un giorno del 1976, quando era tra l’altro sindaco del paese, perse la vita in un incidente stradale.

Il figlio Costantino gli ha fatto un dono postumo, di valore inestimabile: ha ricostruito la storia  di quei dieci anni trascorsi in Africa. L’idea gli è venuta la sera in cui ha visto alla tv un servizio sul campo di concentramento di Zonderwater, dove il padre aveva trascorso parte della prigionia. Si è dato da fare prima prendendo contatto con l’Ambasciata del Sud Africa; poi cercando collegamenti con altri reduci; leggendo diari, memoriali, libri di storia. E poi ancora aprendo la valigetta di latta dove il padre aveva riposto lettere e documenti; e infine andando in visita ai luoghi del lungo percorso che l’aveva portato attraverso il grande continente.

Il libro ha inizio nel 1937, quando il padre parte. L’impero non era consolidato, si trovò in clima di guerra e di guerriglia. Iniziò a emanciparsi, prendendo la patente e divenendo autista. Chiedeva di rientrare, ma venne fatto prigioniero dagli inglesi: unico vantaggio la possibilità di studiare.

Il decimo volume, “La portaerei del Mediterraneo”, è opera degli avvocati cagliaritani  Marco Coni e Francesco Serra. Entrambi appassionati del volo e conoscitori degli aerei. Il titolo nasce dal fatto che, a differenza delle altre potenze impegnate nella guerra, l’Italia non possedeva portaerei, e di fatto da portaerei funzionarono varie parti del territorio affacciate sul mare, in particolare la Sardegna.  

L’isola fu così per un verso base di reparti aerei, per l’altro obiettivo e bersaglio dell’aviazione nemica. Il libro si apre perciò con la rassegna dei reparti presenti: dotati di 170 apparecchi, soprattutto i bombardieri Savoia Marchetti detti “Sparvieri”. Erano di sede a Elmas e Fertilia, ma erano stati improvvisati “campi di manovra” anche a Decimomannu, Villacidro, Capoterra, Milis, Borore ecc. Segue il racconto delle azioni di guerra, le nostre e soprattutto quelle contro di noi, con i bombardamenti su Cagliari e altri centri abitati.

Il volume comprende l’elenco di tutte le vittime e le schede tecniche con i disegni dei velivoli, sia i nostri che quelli dei nemici.

L’undicesimo volume, “Sardegna 1940-1945”, era stato curato in prima edizione da Manlio Brigaglia e Giuseppe Podda, a metà degli anni Novanta, per far parlare testimoni e protagonisti, e indurre così «quelli che c’erano» a ricordare gli avvenimenti a vantaggio di «quelli che non c’erano». Pensando quindi ai giovani.

Il libro viaggia così tra cronaca e storia, ma ha anche una valenza letteraria che gli deriva dal colore e dal calore delle testimonianze, dove il lavoro della memoria fa vibrare le corde più profonde del sentire personale. Il libro si divide in tante sezioni, dedicate ognuna a una fase: l’inizio delle ostilità, i bombardamenti, lo sfollamento ecc. Ogni sezione si apre con un quadro dei fatti, poi prosegue con le testimonianze. Contribuiscono anche Brigaglia e Podda, che nel 1940 avevano undici e dieci anni.

Alle notizie essenziali sullo sfollamento, ad esempio, seguono gli scritti autobiografici di Giorgio Pisano, giornalista dell’“Unione Sarda”, dello stesso Brigaglia, di Gianni Filippini, che dell’“Unione Sarda ” è oggi direttore editoriale, e dello scrittore Salvatore Mannuzzu.

Molte le pagine su Cagliari, la città che subì maggiormente la guerra in passivo rappresentata dai bombardamenti. Sassari trova spazio nelle pagine del noto giornalista Aldo Cesaraccio, attento a quanto accadeva in città. Fu presente tra l’altro quando l’arcivescovo Arcangelo Mazzotti, dopo aver fatto condurre in Duomo la statua della Madonna delle Grazie  per un ciclo di preghiere, si accingeva a ricondurla a San Pietro: fu allora che, parlando ai fedeli riuniti sulla gradinata, si impegnò, nel caso la città fosse stata risparmiata dalla guerra, a quel voto che ancora oggi viene assolto, anno per anno.

Il dodicesimo volume, “Le missioni di pace della Brigata ‘Sassari’”, è opera dello scrittore e poeta Antonio Strinna. Dopo tanti volumi dedicati alle guerre del passato questo si sofferma sulle prospettive che si sono aperte in seguito; e su come il “valore dei Sardi” si è configurato in tempi in cui i rischi di una guerra combattuta in casa si andavano affievolendo. Il passaggio da una logica guerriera a una adattata all’assenza di conflitti, e all’esigenza di intervenire in quelli che continuano a insanguinare altre parti del mondo, è vista attraverso la vicenda della Brigata.

Apprendiamo così le trasformazioni che sono avvenute in tutti i reparti dell’esercito che dal servizio militare obbligatorio sono passati ai tempi attuali, con i ranghi ridotti ma con una maggiore professionalità e nuove motivazioni.

L’autore ha incontrato e intervistato comandanti, graduati e militari semplici, ha raccontato le ultime vicende, ha colto l’atmosfera che si è creata. I ricordi più lontani risalgono agli anni Cinquanta, quando il 152 funzionava come Centro Addestramento Reclute, e l’analfabetismo era così alto che fu necessario chiamare dei maestri e aprire delle classi.

Poi si arrivò alla ricostituzione della Brigata, caldeggiata tra gli altri dal mitico generale Musinu. Vennero quindi le nuove logiche d’azione, con la missione “Forza Paris”, contro i sequestri di persona, e con “Vespri siciliani”, contro la mafia in Sicilia. E la narrazione continua con le spedizioni nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, che sono alla base della storia di oggi.

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