EMIGRAVAMO NOI, EMIGRANO I NOSTRI FIGLI: DOVE STANNO ANDANDO I NOSTRI RAGAZZI?
di Antonio Falda
Biglietto di sola andata che fa un certo, strano effetto. Anche perché di solito si fa sempre anche quello per tornare. In testa, un sacco di idee, senza averne una precisa. L’entusiasmo che ricompare in chi si aspettava almeno qualcosa. Non molto, ma qualcosa. Da questa nostra vita che ci siamo costruiti intorno.
La storia si ripete. Quella di quei ragazzi, i nostri genitori, che raccattate le loro cose in una valigia di cartone, partirono per quel nord che oggi non basta più. Con il sogno di una fabbrica, di un tram che li riportasse ogni sera a casa, del tepore dei termosifoni in quei lunghi gelidi inverni, della speranza in un futuro concreto.
Quel futuro che non sappiamo più dove sia. Che ogni giorno mette in bilico anche le nostre certezze. E nel quale non possiamo più confidare. Quello che consentiva di crearsi una famiglia, di una casa pagata a rate tra mille salti mortali, di quanto sapevamo che prima o poi ci aspettasse e che adesso non c’è più.
Prenderanno un aereo. Un treno. Un bus. Che li porterà in un paese in cui mischiarsi con le parole a quelle da un suono diverso. Ai sapori e i suoni e gli orari e le abitudini e le speranze, differenti. Da qui. Da una terra che quasi non li vuole più. Che non crede o non ci vuole più credere nella propria gioventù.
Nella borsa, pressate tra gli indumenti e un po’ di tutto ciò che potrà servire per i primi tempi, infilate all’interno di una busta, le scarpette. Quelle coi tacchetti, macchiate di fango. Quelle di tante partite. Che porteranno sempre con sé. Che li farà sentire sempre con la stessa squadra. In quel vecchio campo. Vicino a casa.
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Come noi, “emigrati” qui in Irlanda, vanno in qualsiasi posto in cui esistano ancora dei valori. In cui sia possibile lavorare e vivere.