di Omar Onnis
Negli ultimi giorni si sono succeduti alcuni fatti significativi, che suggeriscono quale sarà lo scenario prossimo venturo in Sardegna e quali saranno le dinamiche che lo animeranno. A Capo Frasca si è tenuta la grande manifestazione nazionale (nazionale sarda, precisiamo) contro le servitù e l’occupazione militare: un successo su cui in pochi avrebbero scommesso. Altro fatto: in Scozia si è tenuto il referendum per l’indipendenza, con molti strascichi dialettici anche da noi. Più o meno in contemporanea, di nuovo in Sardegna, il servizio SAVI della Regione ha archiviato la richiesta della SARAS di trivellare l’agro di Arborea in cerca di metano, attribuendo così una vittoria concreta e simbolica al fronte che si era mobilitato contro tale progetto. La cosa più rilevante di questi eventi, apparentemente scollegati uno dall’altro, non sono tanto i singoli fatti in sé, quanto soprattutto le reazioni che hanno scatenato. Raramente mobilitazioni popolari e manifestazioni ed anche eventi internazionali riescono a infrangere la barriera insonorizzata che circonda le sedi del potere. In Sardegna questa impermeabilità è una delle principali garanzie dello status quo. La realtà non deve disturbare le decisioni che riguardano i grandi interessi consolidati (di cui la politica istituzionale è portavoce o esecutore materiale). In questi casi recenti invece abbiamo assistito a reazioni scomposte, poco preparate, sulla difensiva rispetto a una modifica non preventivata dell’agenda. La mobilitazione contro le servitù militari, riuscita grazie a una serie di circostanze anche fortuite e ad altre inedite (tipo l’appoggio del maggiore quotidiano dell’isola), ha costretto la politica sarda a prenderne atto e a dare delle risposte che altrimenti non avrebbe dato. Risposte insufficienti e del tutto inappropriate, ma che denotano la profonda debolezza dell’apparato di governo sardo, quando ha a che fare non con un popolo passivo e rassegnato, ma con aggregazioni di cittadini consapevoli e non impauriti. Allo stesso modo sono rilevanti le reazioni delle forze armate, del governo italiano e dei mass media organici a tali apparati di potere. Il segnale del 13 settembre scorso è stato colto e non è stato apprezzato affatto. Lo si ignorerà, dunque. Le esercitazioni continueranno e le servitù non verranno eliminate. Perciò sarà necessario minimizzare l’accaduto, marginalizzarlo e renderlo innocuo. Si cercherà di fare melina, per usare un gergo calcistico, di spostare il focus della discussione pubblica su aspetti secondari, si farà finta di decidere qualcosa, magari mandando avanti testimonial favorevoli all’occupazione militare, confidando così di sfiancare e di rompere il fronte avverso. Le dichiarazioni carpite ai pescatori di Teulada, favorevoli al poligono (perché fonte degli indennizzi a cui così hanno diritto), sono un esempio di marketing del dipendentismo. Il referendum scozzese ha invece spostato l’attenzione sulla questione dell’indipendenza. Una patata bollente che la politica sarda cerca sempre di evitare con ogni mezzo. In questo sostenuta dall’ambito intellettuale nostrano, prevalentemente organico alla classe dominante e tributario verso gli assetti di potere vigenti. Il clamore suscitato dal fatto stesso che una popolazione europea, per di più nel cuore stesso del sistema economico e finanziario del pianeta, abbia avuto la possibilità di esprimersi liberamente sulla propria condizione politica, ha suscitato un allarme enorme laddove si pretende di gestire e controllare gli sviluppi storici (naturalmente per trarne vantaggio e profitti). Per contrastare l’indipendenza scozzese sono dovuti scendere in campo i pezzi grossi: il Fondo Monetario Internazionale, i maggiori esponenti dell’Unione Europea, lo stesso presidente degli USA. In Italia quest’evento è stato affrontato col solito pressapochismo provinciale. Eppure se n’è dovuto parlare. Una cosa mai vista. In Sardegna più modestamente si è dovuto ricorrere agli occhiuti agitatori da social network e ai soliti intellettuali di regime, per altro con argomentazioni intimamente patetiche e/o ridicole. L’obiettivo era di 1) ridimensionare senso, portata e risultato del referendum scozzese e 2) negarne qualsiasi possibile analogia o connessione con la situazione sarda. Tale operazione di disinformazione ha occupato molte persone per giorni, in varie sedi e a vario livello. Il che è già di suo un indice di paura e di debolezza, a pensarci bene. Nel caso del successo della mobilitazione contro lo scellerato e offensivo Progetto Eleonora della SARAS, mentre l’azienda direttamente interessata ha tenuto un profilo basso (che non significa resa, ma attesa che qualcun altro risolva la grana), sono intervenuti sulla questione alcuni esponenti dell’establishment italiano. Fatto notevole, dato che costoro non sono soliti occuparsi di Sardegna (se non per venirci in vacanza ovviamente). In questo caso si mostra in tutta la sua evidenza la reale percezione che la classe dominante italiana ha della Sardegna e dei Sardi. L’approccio razzista è piuttosto esplicito. L’ignoranza di fatti e circostanze, pure (la Sardegna non rinuncia al metano, è la SARAS che deve rinunciare al metano sardo; il GPL che la Sardegna deve importare è prodotto in Sardegna, proprio dalla SARAS, e commercializzato tramite un cartello illegittimo tra aziende distributrici). Il senso profondo delle reazioni summenzionate è uno: la Sardegna deve rimanere a disposizione. Non dei Sardi ovviamente. Non dobbiamo avere nemmeno la minima illusione sulla possibilità che la presa sulla nostra terra e sulle nostre vite sia allentata. Con buona pace dei sovranisti. Se proviamo a dare strattoni, cercheranno di farci stancare, magari molleranno appena appena la presa, poi stringeranno ancora di più. Ma la cosa più grave è che la nostra classe dominante e le forze politiche che ne sono l’espressione istituzionale sono complici di questa condizione storica. Lì sta uno dei nodi strategici da sciogliere. Prendersela con l’Italia o con la SARAS non serve a nulla se non si concentra l’attenzione sull’apparato di potere locale che ne garantisce gli interessi. L’autodeterminazione della Sardegna passa da qui, da un lavoro profondo di erosione del consenso clientelare e dipendentista su cui si basa la forza dei partiti italiani e dei loro satelliti sardi. Finché penseremo che l’unica cosa che meritiamo è di essere ospiti appena tollerati a casa nostra, che l’aspirazione più grande di un territorio sia di essere occupato militarmente e devastato da operazioni belliche, purché arrivi qualche indennizzo – un’elemosina indecorosa – a qualche famiglia del posto, le cose non cambieranno, se non in peggio. A questo punto, la decisione del sindaco di Elmas, che vorrebbe pagare i giovani del suo paese per andarsene, ha se non altro il pregio della sincerità. Questa è la soluzione: andarsene. E più sei in gamba, capace, volenteroso, più in fretta devi fare le valige. La Sardegna non è un paese per Sardi. Non per Sardi (nativi o di elezione) che si considerino e vogliano essere persone libere, membri responsabili della propria collettività. Il messaggio è chiaro e non è affatto casuale. La politica sarda ha questo scopo: garantire che la Sardegna continui ad essere un oggetto storico. Niente altro. Non prendere decisioni, non governare, non fare leggi, non pianificare strategie economiche, sociali, culturali. Deve solo fare in modo che la Sardegna rimanga dipendente e subalterna. Possibilmente col nostro consenso, e comunque espellendo i renitenti, scoraggiando i volenterosi, fiaccando il tessuto produttivo, la creatività e la tempra civile e culturale di chi si ostina a volerci vivere. Questo è quanto. Negarlo significa solo o essere accecati o essere c
omplici. Dopo di che, a ciascuno la scelta su cosa fare.