Il popolo delle torri, erede riconosciuto di Dedalo e degli eraclidi, non è mai entrato ufficialmente nella storia: l’assenza di scrittura lo ha confinato per sempre nell’Ade della protostoria. Nessun poeta ne ha mai trascritto le imprese gloriose, descritto le mura possenti o narrato le complesse discendenze regali. Il canto ritmato dei rapsodi, che risuona ancora negli apparentemente improvvisati mutettus campidanesi, non ci ha tramandato l’epos nuragico e con esso la chiave di comprensione di una delle civiltà più enigmatiche del bacino del Mediterraneo, la cui nomea, persa nella notte dei tempi, echeggia ancora fra le possenti regge megalitiche.
Le origini. Era il 1857 quando il padre dell’archeologia sarda, Giovanni Spano, parlò per la prima volta di «monumenti scritti» risalenti «alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi», che benché ancora tutti da decifrare nella loro natura alfabetica o religiosa, aprivano un mondo di possibilità fino ad allora del tutto ignorato per la vetusta Ichnussa. Lastre metalliche, in rame o più raramente in stagno, a forma di pelle di bue con delle protuberanze nei quattro vertici, gli oxhide ingots, offrirono allo Spano un suggestivo rompicapo. Grazie a «qualche segno incavato a taglio con istrumento nel mezzo o nella parte superiore, imitante la croce egiziana, o la rozza forma umana colle mani alzate, simili ad una lapide cartaginese», ed alcuni confronti mediterranei, egli giunse alla conclusione che «quei segni se non sono rozze figure, siano un monogramma della voce Thaut o Thut, divinità adorata dai primi Egiziani o Fenici alla quale attribuivano l’uffizio di registrare il supremo giudizio che il Dio grande pronunziava sulle anime dei morti nell’Amenti».
Stele sepolcrali di provenienza orientale giunti a Nuragus, in località Serra Ilixi, in epoca nuragica.
Questa fu la sentenza del canonico il quale, però, già quattordici anni dopo ne discerné l’esatta funzione in «pani di officina» reinterpretando anche i segni non più come monogramma di Thaut, quanto piuttosto come «marca dell’usina da cui sono uscite». E così nel 1871 venne decretato l’analfabetismo nuragico: «Per quante ricerche si siano fatte dentro ed attorno i Nuraghi, non si è scoperto mai un monumento scritto».
Sistemi scrittori iberici ed egei. Se Ettore Pais, nel 1884, ascrisse definitivamente i lingotti di Serra Ilixi a fonderie sardo-nuragiche, individuando per la prima volta la resa schematizzata del pugnale sardo in uno di questi lingotti, la scoperta a Enkomi (Cipro) di un oxhide ingot con un semata sillabico cipriota, perfettamente confrontabile con quelli di Nuragus, definì l’appartenenza di quei misteriosi segni all’ambito scrittorio egeo. Ma il ritrovamento, all’inizio del secolo scorso, di una epigrafe nel Nuraghe Losa con scrittura (?) astiforme, ripropose un’origine occidentale di tali manufatti, come ancora sostenuto da Lilliu negli anni Cinquanta: «Forse il momento più antico è quello indicato dalle tracce d’iscrizioni che, se effettivamente celtiberiche, potrebbero attribuirsi a breve stanza di mercenari iberici al servizio di Cartagine presso la fortezza».
Tzricotu. La grande isola nel verde mare, centro di commerci e scambi culturali nuovamente castrata dell’unico attributo che la separa dalla Storia: la scrittura. Perché una cosa è scoprire tracce di scrittura dell’epoca nuragica, altra è asserire che si tratti di scrittura nuragica. E altresì dicasi per il celebre ritrovamento delle tavolette bronzee di Tzricotu, a Cabras, che ha sancito la nascita del filone del riconoscimento della scrittura nuragica a tutti i costi. Così per Gigi Sanna anche in un testo bizantino si possono leggere – agevolmente – segni «di origine semitica (codici protocananaici, protosinaitici, gublitici e ugaritici)», in uso presso gli abitatori delle torri.
La scrittura e i segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo. L’errore di fondo è ridurre una civiltà millenaria a un unico piano temporale: «Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame a pelle di bue». Secondo Giovanni Ugas, dunque, nonostante i tentativi di diversi pseudo studiosi, non c’è evidenza scientifica della presenza di scrittura – autoctona o di importazione – durante tutta l’età del Bronzo in Sardegna. Con la sola eccezione del sigillo a cilindretto di Su Fraigu a San Sperate, risalente all’ultimo scorcio del Bronzo finale, tutte le testimonianze scrittorie provengono, infatti, da contesti di prima età del Ferro, inserite in manufatti d’importazione più antichi e oggetto di un successivo riuso, come sembra confermare il confronto con ambiti coevi fenici fuori dall’isola. E così anche per i segni ponderali «finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo». A questa fase, tuttavia, sono ascrivibili pesi da bilancia, spade, mattoni di fango e lingotti di rame che forniscono riferimenti significativi per la ricostruzione del sistema metrico-ponderale adottato in Sardegna.
L’età del Ferro. Con l’avvento della prima età del Ferro, nel IX secolo, si assiste a una vera e propria rivoluzione. La comparsa di un sistema vocalico di scrittura alfabetica (che richiama quello beotico dell’VIII) per lo più presente in forma di monosintagmi su manufatti litici, metallici o ceramici i quali, al di là della scarsità numerica e la brevità dei lemmi che non permettono a tutt’oggi la ricostruzione di un lessico nuragico propriamente detto, sancisce il passaggio a una civiltà storica.
Ancora secondo Ugas «lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano».
Diversamente, Zucca ribadisce il suo fermo diniego a ogni ipotesi di scrittura definibile propriamente nuragica e preferisce parlare di uso di sistemi alfabetici di imprestito greco o fenicio, perché «un conto è dire che si tratta di scrittura, altro è attribuirla con certezza ai nuragici».
Di origine sarda o di provenienza orientale, è inopinabile che – allo stato dell’arte – si possa parlare esclusivamente di scrittura d’uso commerciale, fondamentale per i rapporti con le altre evolute civiltà mediterranee, ma non di un alfabetismo letterario.
Per quello dovremmo attendere ancora, forse. E a cantar le lodi dei nostri avi, fino a quel giorno, svetteranno ancora maestose le alte torri di Dedalo: i nuraghi.
I Sardi erano una schiatta Europea, come i Baschi, gli Iberici, gli Aquitani, e non risultano scritture nel Bronzo di queste genti, ne tra i popoli protocelti dell Europa Atlantica. Le prime attestazioni pervengono dalla Sardegna Fenicia e dalle zone del Tarshish atlantico, dove Ciprioti, Sardi, Iberici, e Greci interagivano, nei commerci e nei traffici navali. Erano i Phoinikes di Sur, a insegnare a Greci, Tirreni e Sardi e Iberici, le nuove lettere di un alfabeto straordinario.