di Matilde Gianfico *
Come sta Farouk? Sta bene, è sereno e tranquillo.
Cosa fa e dove vive ora? È appena rientrato a Parigi dopo cinque anni trascorsi negli Stati Uniti per studiare Business Administration. Ora fa l’account per Groupon.
A ventidue anni dal sequestro del piccolo Farouk Kassam, parla per la prima volta la mamma del bambino, Marion Bleriot Kassam che, al tempo dei fatti, aveva solo trentuno anni. Francese, bella e di gran classe, visse quei mesi del sequestro di suo figlio ai margini della giostra mediatica che, per una concomitanza di fatti, non fu difficile montare. C’era la vittima, un piccolo bambino di soli 7 anni, “rubato” come diceva lui, la sera del 15 gennaio da un commando di uomini neri e incappucciati. C’era il “cattivo”, Matteo Boe, il suo aguzzino, ammantato da un mito arrugginito di uomo bandito. C’erano gli 007 dei servizi segreti che portarono avanti le trattative di una liberazione avvolta in una nube di dubbi e sospetti. C’era Graziano Mesina, l’ex Primula rossa dell’anonima sequestri, nei panni di un improbabile ambasciatore di pace e libertà. C’era una prigionia durata sei mesi, una delle più inumane che la storia italiana dei sequestri di persona ricordi, per di più inflitta ad un bambino.
Come affronta una mamma i centosettantasette giorni di prigionia del proprio figlio di soli 7 anni nelle mani dell’anonima sequestri? Con terrore e cercando di non perdere mai la speranza. Ogni tanto attraversavo momenti di sconforto e qualche brutto pensiero mi attanagliava, pensavo al caso in cui non avrei rivisto mio figlio, ma dovevo essere tenace e determinata perché, come mi aveva insegnato mia madre provata nella sua vita da profondi dolori, le speranze muoiono solo con la morte dei propri cari. Ricordo che era snervante ascoltare amici e parenti, volevano farci sentire la loro vicinanza e suggerivano cosa fare, davano opinioni e anche giudizi, mentre io e mio marito avevamo scelto di affidarci agli inquirenti e di seguire la linea da loro indicata.
Una linea dura che aveva fatto chiacchierare anche l’opinione pubblica… Sì, ma è stata quella giusta. I tempi lunghi nelle trattative della liberazione di un ostaggio sono necessari. Ci era stato spiegato che una eccessiva disponibilità avrebbe portato a conseguenze opposte a quelle desiderate. Dopo un periodo di stallo in cui ricevevamo letterine di Farouk scritte sotto la dettatura dei rapitori, il 15 giugno ci venne recapitata una busta contenente il lobo dell’orecchio di mio figlio. Il messaggio era un ultimatum, se non avessimo pagato il riscatto entro venti giorni avremmo ricevuto un altro pezzo di Farouk. Da quel momento si cominciò a trattare e un mese dopo mio figlio venne liberato.
Il momento più difficile di quel periodo? Tutto, da quella sera in cui entrarono in casa e portarono via Farouk che urlava: “Voglio restare col mio papà”, fino alla fine di quell’orribile incubo, nel giorno della liberazione. E’ come trovarsi in un tunnel, solo che non si sa quanto è lungo, né come sarà la luce all’uscita. Ricordo che abbiamo dovuto tenerlo per ore a mollo nell’acqua calda tanto era sporco.
Quando pensava a suo figlio nella mani dei banditi si immaginava le condizioni in cui stava e come lo trattavano? Avevo sentito le dichiarazioni di altri sequestrati, ma nessuno è stato trattato come mio figlio. Non pensavo fossero capaci di tanta crudeltà, per di più nei confronti di un bambino di 7 anni. Lo trattarono come non si tratta nemmeno un animale. Matteo Boe, il carceriere “cattivo”, come lo chiamava Farouk, lo tenne rinchiuso in fondo alla grotta costringendolo a stare disteso su un piccolo giaciglio appena illuminato da uno spiraglio di luce che entrava da una piccola breccia sulla volta. Per tutta la prigionia non gli consentì di alzarsi nemmeno per andare a fare i bisogni da qualche altra parte. Quando venne liberato, a causa della sua lunga immobilità, aveva le ossa gravemente decalcificate e le gambe fragili come grissini. Il carceriere lo fece uscire soltanto una volta con l’unico scopo di trarlo in inganno, convincendolo che la fitta nebbia che quel giorno era calata sulla valle sottostante fosse il mare, così che, se un giorno fosse stato liberato, avrebbe sviato gli inquirenti nel rintracciare la grotta. Gli lanciava il grasso del prosciutto e se vomitava, lo picchiava con una verga costringendolo a ringoiare il suo vomito.
Dopo la liberazione, Farouk raccontava con disarmante semplicità d’esser stato rubato: come ha spiegato a suo figlio quello che era successo? Gli ho sempre detto che quello che era capitato a lui, pur essendo un fatto gravissimo e non frequente, poteva succedere a chiunque, proprio come accadono gli incidenti auto. Sapeva che i banditi che l’avevano portato via quella notte, erano persone cattive, ma non volevo che crescesse con un odio diffuso nei confronti dei sardi, e infatti ha sempre considerato la Sardegna casa sua.
Le trattative per la liberazione del piccolo Farouk proseguirono per cinque mesi tra le attenzioni dei media, le esorbitanti richieste di riscatto, l’appello di Papa Wojtila alla “sensibilità umana e cristiana” di chi teneva in ostaggio il bambino. La situazione volgeva al peggio e a quel punto Marion Bleriot, si rivolse alle donne di Orgosolo. Nel giorno di Pasqua mentre veniva celebrata la Santa messa delle Resurrezione, si recò nella parrocchia del centro barbaricino e fece un appello alla comunità.
Per tutto quel periodo lei è sempre rimasta nell’ombra, perché scelse di parlare alle donne e cosa si aspettava di ottenere con quell’appello? Sapevo che nella cultura barbaricina era forte la figura della donna come moglie e come madre, ma avevo anche letto di un episodio capitato pochi giorni prima. Si diceva che un pullman di turisti era stato assaltato e derubato non lontano da Orgosolo. Gli abitanti avevano fatto una colletta e restituito i soldi ai turisti. Mi aveva colpito questo gesto, e pensai: “è lì che devo andare per chiedere aiuto”. Per questo motivo scelsi Orgosolo.
Come venne accolta? Arrivai nella chiesa dove si sarebbe svolta la messa di Pasqua e andai a cercare il parroco, Don Sanguinetti. Quando gli dissi chi ero, raggelò e si mostrò molto preoccupato per la mia richiesta di poter fare un appello durante l’omelia. Dopo avergli mostrato il foglio su cui avevo appuntato ciò che volevo dire, si tranquillizzò e mi indicò dove sedermi. Lentamente la chiesa si riempì, le donne da una parte e gli uomini dall’altra. Io mi sedetti all’estremità della panca della prima fila. Man mano che le donne prendevano posto al mio fianco, si allargavano sempre più spingendomi con leggere pressioni verso l’esterno della panca fino a quando mi ritrovai con una parte dell’anca sospesa nel vuoto. All’inizio pensai che non avessero gradito la mia presenza, ma poi capii che non mi avevano riconosciuta e probabilmente avevo preso il posto sulla panca a qualcuna di loro. Al termine dell’omelia, il parroco mi presentò e mi invitò a salire sull’altare tra gli sguardi sorpresi, ma ancora un po’ diffidenti, dei fedeli.
Si ricorda cosa disse, quali parole usò per il suo appello? Sì, conservo il foglio che avevo letto: “Ho scelto di rivolgermi a voi per la vostra generosità, e ospitalità, perché siete persone di cuore. A tutte le mamme lancio il mio grido, so che voi potete capirmi. Abbiamo portato i nostri figli in grembo per nove lunghi mesi, li abbiamo amati, coccolati, curati per giorni e notti, gli abbiamo dato il meglio di noi e poi un giorno, nella mia casa, sono entrati degli sconosciuti e si sono portati via il mio bambino. Nessuna lacrima, nessun grido, solo la voce angosciata di un bambino che dice “ma io voglio stare col mio papà”.
Dritta al cuore … Alla fine della messa, si avvicinarono tutte le donne presenti, come in una processione e mi baciarono, una per una.
Crede che abbia avuto qualche effetto il suo appello alle donne di Orgosolo? Si, io sono certa che è stato determinante per i fatti che accaddero e le trattative che seguirono. Dopo pochi giorni, si fece vivo Graziano Mesina e chiese un incontro con la famiglia Kassam. Andai io all’appuntamento, ma Mesina non gradì, mi trattò in modo sprezzante dicendomi chiaramente che lui non discuteva questi argomenti con una donna.
La notte del 10 luglio, il piccolo Farouk riabbracciò la mamma, il papà e la sorellina Nour, che in lingua araba vuol dire luce. Dopo due anni di indagini furono arrestati in tre: Matteo Boe, che patteggiò la pena e ottenne vent’anni di reclusione e i suoi complici Mario Asproni e Ciriaco Baldassarre Marras, ventisei anni di carcere.
Una sera di novembre del 2003, venne brutalmente freddata con un colpo di pistola la figlia di Matteo Boe e Laura Manfredi, aveva soli quattordici anni. Cosa pensò di quell’assassinio? La notizia mi gelò. Nessuno, neanche Matteo Boe, merita la morte di un figlio.
Si può perdonare il rapitore e carceriere del proprio figlio? È difficile, e ci vuole del tempo. Cerchiamo sempre un perché alle cose, io avrei voluto capire cosa c’era nella testa di Matteo Boe. Ma un giorno ho letto sul web alcune sue dichiarazioni e ho capito che c’erano poche possibilità che potesse davvero pentirsi per ciò che aveva fatto al mio bambino. Ora questa storia fa parte del passato, non va dimenticata, ma non deve condizionare la vita presente e futura. Forse è solo questo perdonare.
Alla fine di questa triste storia, a distanza di anni, che rapporto avete con questa terra? Dopo la liberazione siamo partiti subito per la Francia per sfuggire alla pressione mediatica e fare controlli medici, ma Farouk chiedeva solo di tornare a casa e per lui la sua casa era la Sardegna. È una terra che in famiglia amiamo tutti e alla quale siamo molto legati. Siamo rimasti tre anni a Porto Cervo dopo il sequestro, ma volevo che Farouk iniziasse le scuole medie in Francia, per questo abbiamo lasciato l’Isola. Sono ritornata anche in Barbagia, abbiamo fatto insieme a mio marito Fateh escursioni di trekking nella gola di Su Gorroppu, ma questa è l’unica zona dell’Isola che non visito con piacere, perché ho sempre paura che la nostra presenza venga vista come un atto sfrontato e offenda le persone del luogo.
* La Donna Sarda