Il silenzio assordante di grottesche maschere di cartapesta, i movimenti convulsi degli uomini, stretti in abiti che malcelano un ventre troppo abbondante, quelli ritmati e decisi di una donna avvolta in uno scialle nero e un vagito che rompe il silenzio. Siamo a Milano, nel Teatro Blu e ad andare in scena il 14 giugno sono, grazie all’abilità di cinque giovanissimi attori meneghini, le tradizioni e le consuetudini di una Sardegna nemmeno troppo lontana negli anni. Preghiere, superstizioni, cose conosciute da tutti ma che navigano ancora tra le file del :”silenzio, è un segreto” . Eccolo Accabadora, spettacolo teatrale realizzato da Maria Rosa Criniti, Dario Del Vecchio, Giulia Lombezzi, Daniele Pennati, Silvia Tinti della giovane compagnia del MAMADIAKI THEATER ENSEMBLE. Il gruppo dei cinque, provenienti dalla formazione di Jacques Lecoq (scuola biennale del Teatro Arsenale) si sviluppa grazie all’ispirazione di mettere in scena, nell’agosto 2012, la storia della piccola comunità di Soreni, tratta dall’omonimo romanzo di Michela Murgia che appassiona Giulia che, da quel momento, inizia a studiare un mondo molto distante da quello che tutti i giorni l’ha accompagnata nel tragitto da casa alla scuola di teatro. I cinque vengono travolti dall’entusiasmo e vanno a spulciare una buona parte della bibliografia sarda dedicata alla controversa figura de “S’accabadora”: oltre al romanzo della Murgia, leggono “Antologia della Femina Agabbadora” di Pier Giacomo Pala, “Deu ci sia” di G. Tarditi e “Ho visto agire s’accabadora” di D. Turchi. I giovani attori incontrano la rara sensibilità culturale del Circolo Sardo di Milano e della sua presidentessa, Pieragela Abis ed eccoli in scena, davanti a una sala gremita nonostante i precipitosi temporali estivi. La storia di Tzia Bonaria Urrai e della sua “figlia d’anima”, Maria, scorre velocemente tra faide, segreti, bugie e cose che tutti sanno ma non vanno dette. C’è un pezzo di Sardegna degli anni Cinquanta, cristallizzata in un palcoscenico dalla scenografia minimale dove una sedia, dei sacchi di juta, un catino e uno scialle fanno da contorno a una storia dalle mille suggestioni. Soreni, un paese dove le porte di notte vanno lasciate aperte, dove i muri si ritrovano sempre allo stesso posto e dove le persone e gli oggetti, volenti o nolenti, possono tenere prigionieri gli spiriti. Il gruppo teatrale avvia, con questo spettacolo (già portato in scena all’Aia Taumastica Torre dell’Acquedotto in occasione del Festival della Letteratura di Milano, durante la rassegna Erbamil di Ponteranica e al teatro Polaresco di Bergamo all’interno della rassegna “Per amore o per forza”), anche una delicata esplorazione – imparziale e non pregiudizievole – sul tema dell’eutanasia: atto antico, generatore di controversie e dolore, un dare la libertà rimanendo per sempre vincolati all’atto stesso che la permette.
La scelta di maschere che vanno a richiamare il grande teatro greco, collabora con questo desiderio di conoscere senza, però, dare giudizi. C’è, quasi come un antico coro, la voce narrante che, con fare etereo, interviene durante lo spettacolo, lasciando i personaggi congelati nel tempo e nello spazio; ci sono gli abitanti del piccolo paese con le loro bugie, i loro pettegolezzi e le cattiverie sul conto di questo o quest’altro; i due fratelli che si ritrovano vittime delle faide e lei, Maria, orfana e avvolta dall’amore della misteriosa Tzia Bonaria: lei che esce misteriosamente durante la notte, lei che la ama come una figlia ma le cela il segreto più grande. Luci soffuse, un velo di mistero, la bravura di giovani attori lombardi e una storia antica. Cala il sipario, tra gli applausi su una Sardegna dalle mille sfumature dove, ancora, persistono riti antichi e cose non dette.
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S’accabadora esistidi ancora òi in totu sa Sardinnia