Nei paesi della Sardegna fino alla mia generazione si era soliti, d’estate, fare gruppo con i vicini per prendere il fresco, fuori dalla porta di casa. Era l’occasione per gli adulti di raccontare e rendere vive e presenti le storie della comunità, anche le più lontane nel tempo, ma anche storie che si legavano ad altre di paesi vicini, lontani o alla Storia con la S maiuscola. Era un modo di tramandare esperienze, valori, conoscenze. Era un modo per porre ordine e dare senso al mondo e a se stessi. Capitava così ad esempio che mia mamma, ancor prima di andare a scuola, passasse e ripassasse davanti a un vecchio che aveva combattuto la guerra di Crimea e fantasticasse su quella guerra e su quel luogo lontano tanto che quando poi studiò il Risorgimento le parve quasi di averlo vissuto. Da tempo questi intrattenimenti non esistono più, ai giovani non interessano i racconti dei vecchi e i vecchi forse hanno poco da dire. Ci ritroviamo così schiacciati sul presente, spesso privi di bussola e troviamo difficoltà a collegare passato e presente. Sicuramente questa situazione è determinata dalle accelerazioni che il mondo conosce a partire dal novecento, accelerazioni che hanno coinvolto anche i modi di pensare alla vita, è un fenomeno che accomuna tutto l’Occidente e, forse, tutto il mondo. Ma in Italia ha assunto, in questi ultimi decenni, aspetti più profondi e devastanti anche perché niente, o quasi, si è fatto per contrastare questa “tyrannie de l’urgence”, come la definisce il filosofo francese Zaki Laidi. Recentemente si fa strada però il tentativo di porre rimedio a questa perdita di memoria per cui, ad esempio, si recuperano le memorie familiari di quanti hanno partecipato alla Prima guerra mondiale attraverso la ricerca di lettere, cartoline scritte dal fronte o attraverso i racconti tramandati a figli e nipoti. E’ stato inoltre pubblicato uno studio che indaga su come abbiano vissuto la perdita gli orfani dei caduti in guerra. E’ un tentativo insomma di recuperare, prima che sia troppo tardi, la memoria di avvenimenti non lontani ma i cui testimoni, diretti e indiretti, stanno scomparendo.
Ma tanti sono nei nostri paesi i ricordi che rischiano di scomparire, e sarebbe una grave perdita. Sappiamo pochissimo ad esempio su quanto è accaduto nel primo dopoguerra, come siano state vissute, percepite e raccontate la nascita di nuovi partiti, gli echi della rivoluzione bolscevica, l’occupazione delle terre e quella delle fabbriche, il fascismo, la sua politica coloniale e i crimini perpetrati contro le popolazioni indigene. Ma sarebbe interessante capire quanto non è stato raccontato, numerosi esempi mostrano un aspetto contraddittorio, talvolta i sardi hanno preferito l’oblio. Un argomento poco indagato è anche quello dei numerosi confinati politici. Chi erano? Perché furono condannati? Pensando al paese di mia madre mi vengono in mente l’architetto di Firenze che mio nonno aiutò facendogli fare il progetto della sua nuova casa, l’insegnante di piano cui venivano mandati studenti riottosi, il comunista che nel mulino insegnò Marx, Lenin e Gramsci ai miei zii. Sono memorie sfilacciate che dovrebbero divenire oggetto di ricerca per ricostruire i rapporti e le contraddizioni che si tessevano fra gli abitanti e i “continentali”. Allo stesso modo si dovrebbero ricostruire l’esperienza di quanti parteciparono alla Resistenza o di quanti furono costretti ad emigrare per fame o per motivi politici. Sarebbe un modo nuovo e partecipato per ridare un senso di appartenenza ad una comunità che sta correndo il rischio di impoverirsi e sfilacciarsi, un’identità aperta al resto del mondo, inclusiva delle differenze, mentre troppo spesso la ricerca della propria identità si rivolge al passato, spesso mitizzato, alla ricerca di tradizioni lontane senza alcuno sguardo al presente e al futuro.
* Sardegna Soprattutto
Ma troppo vero, troppo interessante questo articolo!