“SU RE”, QUANDO IL TEMPO DIVENTA STORIA: A ROMA CON “IL GREMIO” E UNA GIORNATA DI CINEMA DEDICATA A GIOVANNI COLUMBU


di Luisa Saba

L’Associazione dei Sardi “Il Gremio”, in occasione del suo 65° anniversario (1948-2013), con la collaborazione della FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia), della Cineteca Sarda – Società Umanitaria e della Cineteca Nazionale, all’interno della rassegna “Incontro con il Cinema Sardo”, presso il Cinema Trevi di Roma, ha dedicato una giornata al cinema di  Giovanni Columbu, presentando diversi suoi film, tra cui il bellissimo SU RE.  

Giovanni Columbu è nato a Nuoro e si è laureato in architettura a Milano . E’ stato assessore alla cultura a Quartu Sant’Elena dal 1992 al 1995 ed oggi vive a Cagliari.

E’ figlio  di Simonetta Giacobbe  e Michele Columbu, un’icona della Sardegna  del  XX secolo, scomparso di recente , uomo politico, scrittore , maestro  di vita, amante appassionato  della sua terra e della sua  cultura, le cui  impronte  ideali si trovano  nell’opera  SU RE ,che  suo figlio gli  ha  teneramente  dedicato .

La realizzazione de Su Re e stata una impresa corale; per  trovare i finanziamenti  Columbu  ha  lanciato una sottoscrizione pubblica, ricevendo l’aiuto economico  di molti  amici, il sostegno di  Don Mario Cugusi, parroco  a Cagliari della Parrocchia, la Marina, la supervisione  di Don Antonio Pinna, consulente esegetico e vicepreside della Facoltà Teologica sarda, la collaborazione   del  teatro Lirico di Cagliari, che ha preparato per SU RE ben 400 costumi, la partecipazione di decine di interpreti  locali non professionisti , acuni dei quali provenivano dai Centri di Salute mentale .  Nanni Moretti infine è intervenuto infine con la sua  Sacher Distribuzione.

L’idea di  girare  SU RE  venne a Giovanni Columbu  mentre osservava, in una Chiesa  romana,  una tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro evangelisti, Luca, Giovanni, Matteo e Marco, che descrivono i patimenti inflitti a Gesù prima e durante la sua morte. Quelle descrizioni  gli fecero  pensare a come poteva essere diversa la narrazione di uno stesso fatto, vista attraverso la  percezione di chi lo racconta. Provò allora a leggere il Vangelo trasversalmente,  passando da un testo all’altro e arrivando  a percepire un’imprevista forza drammatica della tragedia, ad avvertire l’enorme dolore che trascinano le umane vicissitudini legate all’esperienza della ingiustizia e della morte . Nel corso della realizzazione, l’idea di percorrere i “passi paralleli” riferiti ai singoli evangelisti, ha lasciato il posto a un’altra idea, quella di raccontare accadimenti che si ripropongono nella loro perdurante drammaticità in una sequenza non lineare,modificando le coordinate geografiche e storiche dei fatti, facendoli vivere in un luogo diverso, la Sardegna, e interpretando le vicende originali in una luce nuova e con  nuovi  significati poetici . La poetica, dice  Paul Ricoeur richiamando Aristotele (P. Ricoeur, “Tempo e racconto “), è una “mimesis”, arte di costruire racconti, non di descrivere passivamente dei  processi, capacità di imitare e rappresentare i fatti. La mimesis è dunque un’attività creativa, che a monte  ha un riferimento reale  e a valle ciò che il lettore o lo spettatore percepisce e costruisce  su quel  riferimento reale. Il racconto  della passione  di Giovanni Columbu si inserisce  tra la precomprensione di un fatto storico e la conoscenza di una cultura (“quella sarda, che amo e meglio conosco“) permeata di valori  arcaici, pre-testamentari, dove la visione del mondo, della sofferenza, della giustizia, della morte e dell’amore precede e sovrasta la conoscenza storico-esegetica della passione e morte di Cristo tramandataci dalla  Chiesa . È, quello  di Columbu, un approccio  al  tempo dove, in una  successione rapida e silenziosa di eventi,  esordio  e fine di una esistenza, sono legati  tra loro da un  linguaggio,  da una limba che riesce a creare il  racconto. L’opera di Columbu non è solo una pellicola di rottura,  anticonvenzionale, discontinua  rispetto a  qualsiasi altro racconto  sulla  passione di Cristo,  ma  soprattutto una  mirabile impresa cognitiva  sulla “ funguta “ (profonda) anima  sarda,  anima a  cui  sa limba  dà forma ,  attraverso l’uso di una voce  che diventa  mezzo per   produrre  significato  su ciò che racconta  e rappresenta.

In SU RE il  tempo diviene  storia  quando  si stacca  dallo sfondo di una natura  arida,  fatta di torri e di pietre minacciose, di cielo plumbeo, di radi fiori di asfodelo, e  viene espresso secondo un  particolare linguaggio  che  dà alle condizioni esistenziali  degli interpreti un significato coscienziale  e uno spazio culturale .

Come ha detto un critico “ Su Re è una sorta di supremo urlo primordiale che ci riconcilia violentemente  con le ragioni del fare cinema come strumento privilegiato per indagare le ragioni del nostro essere al mondo. Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra”.

Protagonista  de SU RE è dunque la lingua sarda nella quale i fatti vengono “parlati” da attori che  non sono dei professionisti ma gente del luogo, che anche nella vita parlano  quasi esclusivamente sardo ( eccetto Pilato  e pochi altri). Dice  un grande antropologo sardo , Placido Cherchi  ( “Per una identita’ critica”, Arkadia 2013 ) che quando ci si trova ad essere “’parlati’ nella lingua che parliamo”, bisogna pensare alle impronte che la lingua  riesce a lasciare  sul nostro modo di essere al mondo ed al rapporto  con la realtà che da queste impronte  facciamo discendere.

Un rapporto  di fondamentale importanza  per cogliere lo spirito della  cultura sarda  è rappresentato, ad esempio,  dai modi con cui vengono usati in “ sa limba” i congiuntivi  e i condizionali, che sono i modi della ipoteticità e del dubbio. Emblematiche  sono  in SU RE le sequenze della  Cena, quando  gli Apostoli  si interrogano per capire  chi tra di loro tradirà Gesu: “ No appo ad essere  deo … no appo ad essere deo“ (non dovrei  poter essere io… dovrei poter essere io ). E’una domanda  con la quale prima che sulla propria  possibile colpevolezza , si interrogano sulla  propria identita’ . Gesù  non risponde al dubbio,  ma rilancia il tema identitario  “Su chi est , est pappende cun megus“ ( colui che  e’,  sta mangiando ora con me, appartiene a questa comunità). Tutti mangiavano  in quel momento  con lui, Pietro, Andrea,  Giuda, e tutti lo tradiranno, chi in un modo, chi in un altro.  Tutti traditori, in certe circostanze, al di là delle personali  volontà. Anzi,  quello di loro più angosciato sulla  propria  identita’,  Giuda, dopo  aver consegnato Gesù ai maggiorenti: ”Su che azzis  de faghere, faghidelu ‘ista sera” (ciò  che  dovete   fare , fattelo stasera), “sopraffatto  dal senso  di colpa e dal dubbio di aver sbagliato , si  impicca !“

La storia incombe  sulla  vicenda  narrata  come  qualcosa di perentorio che trascende gli spazi degli individui, i quali sembrano essere ombre,  inquietanti   piccole immagini di  figure  nere  che si muovono  verso  un “ altrove” indistinto .

Ma chi, invece,  estraneo e distante  rispetto a ciò che sta accadendo, pur essendo  drammaticamente  presente  sulla scena con un corpo  martirizzato, è Gesu. Non si difende, non “chestionada”, sussurra  con mitezza  che “su fizzu ‘e s’omine si ch’est andende “,  accompagna le percosse  che gli vengono inflitte  con un continuo, affannoso, pesante sospiro,  in un dialogo spirituale con l’al di là, vera e unica  colonna sonora  al calvario  della croce, insieme  al  sibilo del vento ogliastrino.

Protagonista ancora la lingua, pur nella essenzialita delle parole  pronunciate da  Gesù: “custu est su pane, custu est su  inu, istimadebos sos unos cun sos atteros…”. ‘Istimare’, una parola che torna nel lamento di Maria “fizzu meu istimadu!”. Nel sardo  logudorese –nuorese che viene parlato  nel film (parlano  in campidanese  il ladrone e un testimone, a sottolineare che  sono stranieri rispetto al  luogo dove avviene la crocifissione), la parola amore non si sente quasi mai, mentre  si sente la parola istimare,  che deriva da stimare, estimar, dare un giudizio di valore, di apprezzamento totale. La stima è un giudizio collettivo, il riconoscimento   della virtù condiviso  dalla comunità di appartenenza. Non esistono sentimenti privati nel mondo de Su Re, esiste una comunità giudicante  che deve decidere, in base alle  regole de  “su connotu”, qual è  il   reato di  cui  Gesù è accusato. Quale è la terribile colpa? L’aver  dichiarato di essere un re, SU RE appunto,  e neanche di questo mondo, “de cale mundu, tando?”, come  commenta Pilato. “Nachi fisi su re, …ammustralu, faulanzu!”.  I testimoni,  convocati per fornire i capi di accusa, sono  dei poveracci  che  non hanno visto niente, ma proprio niente, solo sentito dire che Gesù  avrebbe abbattuto  il tempio sacro  in tre giorni e ne avrebbe costruito un altro, più  grande. Ma cosa fa quest’uomo? Confonde la gente, vuol sovvertire l’ordine sociale, ”triulende su logu“, semina malcontento, fomenta la protesta verso  ricchi e sacerdoti! E’ troppo in  una società di pari, dove nessuno  deve  attribuirsi la pretesa di essere  diverso,  superiore  e sopra gli altri. Questo uomo, così diverso, va eliminato, “Cheret mortu”!  Deve morire, come? Buttarlo  in un pozzo, sgozzarlo, no! Ammazzarlo “comente cane è isterzu“, cane da spazzatura,  come l’ultima delle bestie, legato, frustato, inchiodato a una croce. Volti impenetrabili e scultorei seguono l’esecuzione nel silenzio religioso con cui si assisteva  in un tempo primordiale  ad un rito sacrificale, umano o non.  Figure quasi mitiche  si stagliano  insieme alle croci contro  gli spuntoni dei tacchi e dei toneri che disegnano un paesaggio da purgatorio dantesco. Anche Maria, madre dolorosa, piange  l’innocenza del figlio e allo stesso tempo afferma la richiesta di un  principio di giustizia, “pruite t’han mortu?”, che nella storia si deve perseguire quando muore un innocente. In questo scenario apocalittico si colloca l’immagine senza tempo di Gesù, che  “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”(Profezia di Isaia ) .”No aiat  bellesa,  no aiat  nudda“  ricorda  in apertura il Regista , ma  questo nulla  rimanda alla dimensione interiore visibile solo ai “puri di cuore” e alla ricerca  di quel senso di Dio che richiede di superare le apparenze tangibili e di andare oltre la storia .

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