Mi è stato proposto di provare a buttare giù due pensieri sulla prossima missione dei Sassarini in Afghanistan, nell’approssimarsi della loro partenza, e – poiché non tutti con l’età diventano più saggi – ho accettato. E adesso che mi trovo davanti al foglio bianco mi rendo conto che dovrei parlare della missione, di dove vanno, di cosa vanno a fare, perché vanno a farlo, e dovrei provare a dare risposte intelligenti, sagge e meditate alle domande che chi rimane a terra a guardare l’aereo si pone (quelle serie e anche quelle a volta un po’ così). Beh, decisamente ci vorrebbero una penna ed una testa certamente migliori delle mie. Ma siccome sono un incosciente, ci provo.
Questa volta partono per fare un lavoro che è ben diverso da quello dell’ultima volta, e della volta prima ancora. Le unità della coalizione stanno cessando la partecipazione diretta alle operazioni sul terreno, che sono ormai appannaggio delle Forze di Sicurezza Afghane (ANSF, Afghan National Security Forces), e dovranno far rientrare in Patria tutto quel po’ po’ di materiali che, con la drastica riduzione del contingente, si rendono esuberanti alle necessità del dispositivo che rimarrà in loco.
Quindi un’operazione logistica? No, non solo. Dovranno anche continuare a controllare le tecnologie (trasmissioni, sorveglianza, ricognizione, supporto aereo) delle quali le ANSF necessitano ma non sono ancora mature per gestirle in proprio. Quindi una missione da tecnocrati? Nemmeno, perché dovranno continuare a farsi carico del seguire e fornire sostegno, quali mentori o Advisors che dir si voglia, ai colleghi afghani nella loro crescita professionale, nel superare egoismi e interessi personali e lassismo, nel capire che autorità non è potere personale ma servizio, nel trovare una via di mezzo fra il metodo occidentale e la fantasia e la flessibilità orientali.
E dovranno fare tutto questo relazionandosi con i colleghi delle 48 Nazioni che partecipano ad ISAF (dai 2 Islandesi ai 38,000 Statunitensi), anche se solo altri 6 Paesi sono rappresentati nella loro area di responsabilità. Quindi un lavoro da mediatori culturali (a questo punto, chi più ne ha più ne metta…)? In effetti, si anche quello, ma dovranno anche raccogliere dati, incrociarli, valutarli, consolidarli, fornire valutazioni sul progresso non solo delle ANSF ma della governance e dell’economia in un’area grande come tutto il Nord Italia… Per alcuni di loro, probabilmente, sarà una grossa sorpresa rispetto a quel che hanno conosciuto in passato.
Non più la polvere, il fango, l’innegabile rischio ma anche la relativa libertà di Bala Murghab o Bala Balouk e Akhazai e Selsele-Yeh, bensì l’atmosfera sempre più convenzionale di Camp Arena, la grande base bianca vicino all’aeroporto, con i suoi irrinunciabili riti di briefings, gruppi di lavoro, progetti, rapporti, verifiche, riunioni. Però è questo che dà la misura di un successo che qui a casa a volte ci si ostina a voler negare, dimenticando che il successo e la sua misura sono funzione dell’obbiettivo che ci si è posti.
Certo, se l’obbiettivo fosse stato quello di portare l’Afghanistan, un paese che non riesci a capirlo a meno che non ti sforzi di pensare che sei in un 1392 (non dall’Egira, ma della nostra era) dove siano stati portati auto e cellulari, ai livelli di un Paese Europeo, dovremmo dire di aver fallito. Ma se invece pensiamo al nulla di 10 anni or sono, ai meno di 900.000 studenti e scolari e tutti rigorosamente maschi, e pensiamo ai circa 9.000.000 di studenti e studentesse di oggi, o all’accesso ad Internet, alla telefonia cellulare, al sia pur timido riemergere di un ceto piccolo borghese (il più potente fattore di stabilizzazione in una qualunque società), e via dicendo, forse la prospettiva cambia, e non poco…
E chi sono, questi Sardi (e non) che partono? Qualcuno ha detto due anni fa, su La Nuova Sardegna, che nulla hanno in comune con i loro nonni che 101 anni fa vestirono il ruju e il lizzu delle mostrine della “Sassari”. Vero, direbbero quei nonni, e grazie a Dio che è così aggiungerebbero: salute, disponibilità finanziaria, scuola… ma non voglio far polemica. Quello che li unirà, senz’altro, oltre allo spirito identitario (ho visto solo loro e gli Scozzesi attaccare, come prima cosa, la “loro” bandiera – i 4 mori o la Croce di S. Andrea – all’antenna del mezzo), lo stupore ed il rispetto verso un mondo diverso e lontano, culturalmente prima che geograficamente.
Un mondo color ocra, dove una polvere fina come il talco ti si infila in posti della tua anatomia che non immaginavi nemmeno ci potessero essere. O lande di pietra nera, lucida, tagliente, che la prima volta che le ho viste mi è venuto immediatamente di ribattezzare “La Terra di Mordor”. Chagcharan che sembra un villaggio Hopi dell’Arizona, e quasi ti immagini di sentire un lontano rullar di tamburi. E i pastori nomadi Kuchi con i loro dromedari, e le loro donne invecchiate anzi tempo come tutto in questa terra primordiale ma con il portamento regale.
E le montagne che qui non ti proteggono come lì da dove vengo, ma le senti come quasi cattive, ostili. Ma anche il verde brillante dei campi la dove arriva l’acqua, e i colori dei papaveri (duro credere che tanta bellezza si abbini a tanto veleno), e le bambine che nei loro vestiti colorati e intessuti d’oro sembrano principesse, e davanti a loro invece c’è un destino che le farà vecchie a 30 anni. E i vecchi senza tempo, Bism’illah Ul Rahman Ul Rahim, dritti come spade o piegati in due dall’artrite, che sembrano patriarchi dell’Antico Testamento, e tu pensi che potresti essere Sir Bindon Blood della Malakand Field Force del 1897, finché non suona la suoneria dell’ultimo successo di Bollywood e uno di loro comincia un dialogo a raffica di suoni aspirati e scatarranti in pashto…
E il cielo. Il cielo di Gozareh. Quel cielo nero, profondo, che copre un mondo impolverato e cencioso con un manto di velluto. Che spandendo la luce della luna su quelle stesse montagne ostili le rende delle ombre confuse, lontane, misteriose. Le stelle, tante, così tante, così vicine e così diverse, il Gran Carro così basso sull’orizzonte e Orione fuori posto e Cassiopea che quasi non la vedi e hai difficoltà a trovare la Stella Polare…ma solo fino a quando non capisci che qui non è Polaris ma Kochab, che è anche Al-kawkab, che è forma abbreviata di Al-kawkab Al-šam?liyy, “la stella del nord”.
Il buio in cui, al di là del giallo malsano delle lampade alogene del nostro perimetro, l’unica macchia di luce è il fuoco del campo dei nomadi Kuchi, di nuovo allo stesso posto con le loro tende nere, i loro dromedari, le loro pecore dalla coda grassa, e le loro donne invecchiate anzi tempo come tutto in questa terra dura ed avara ma con il portamento di regine, fino al giorno in cui al sorgere del sole non ci saranno più (“A voi buon viaggio, sotto cielo senza tempesta, su facili piste, con pozzi generosi e senza predoni!”). Il cielo nero che ti avvolge, lui sì, amico, e per un momento ti torna in mente il Canto di un pastore errante dell’Asia e nella confusione dei ricordi del liceo credi che forse ti potresti avvicinare a capire quel verso che dice “E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo”, che allora ti sembrava tanto una palla astrusa.
E quindi torneranno più ricchi, dentro, anche se a parlarne viene difficile, magari a scrivere le parole vengono più facili, chissà. E ripenseranno, come sto facendo io in questo momento, ai bambini in grembiulino e zainetto (due bimbe fra di loro) che lo scorso luglio tornavano da scuola a Moqur, e quattro anni fa non sarebbe stato nemmeno immaginabile perché tutto quel che c’era erano una quarantina di soldati impolverati con un paio di mortai che cercavano di portare un po’ d’ordine. E allora, anche se ce n’è di strada da fare ancora, e anche se tutto quel che è stato fatto non è forse ancora dappertutto così stabile come sarebbe bene, si diranno – e vi diranno – che ne è valsa la pena.