LE INTROSPEZIONI CLASSICHE NELLA NUOVA GALLERIA VIRTUALE DELLE SCULTURE DI PAOLO GARAU

Paolo Garau


di Anna Maria Panzera

Riflessioni. Ne verrà fuori un’interpretazione? Paolo mi scuserà di fare un po’ di letteratura sulle sue opere? È un’occasione bella quella di parlare del lavoro di Paolo Garau, perché dà occasione di pensare a molte cose. Credo che chiunque abbia occasione di soffermarsi sulla sua scultura sviluppi una propria idea ed un proprio sentire, senza perciò arrivare facilmente a comunicarne un giudizio in merito.  Nello scriverne poche parole, ho pensato potesse essere utile mettere a nudo innanzi tutto il mio personale metodo di approccio all’arte figurativa, che è per sua natura silenziosa, che decide di esprimersi con linguaggi non verbali e crea mondi paralleli a quello in cui noi viviamo e camminiamo, che è sempre bene il critico attraversi con passi discreti.  È un grande, generoso atto di fiducia quello che gli artisti ci rivolgono e meritano di essere ripagati con la nostra onestà intellettuale e la nostra partecipazione sincera a ciò che fanno. Il connubio indissolubile che arte e critica d’arte hanno deciso di comune accordo di creare, almeno a partire dal XX secolo, non prevede più la figura di teorico esistente fino a tutto il secolo XIX: giudice, che non leggeva né cercava di interagire o scovare il significato dell’opera, ma semplicemente stabiliva se essa apparteneva e rispettava o meno certi canoni. Da allora tutto è cambiato. Forme e linguaggi dell’arte sono progrediti distruggendo l’accademia e la tradizione; il bel disegno ha lasciato il posto ai colori e alle forme pure e spesso neanche a quelle. Vere e proprie rivoluzioni iconiche hanno destrutturato l’antica idea del bello, ancora contenuta nei modelli offerti dalla classicità latina e greca; l’analogia e l’astratto hanno rubato la scena alla mimesi, che di quell’arte antica era il fondamento, aprendo la strada alle avanguardie ed anche al loro superamento. Eppure, di là di tutte le rivoluzioni, la permanenza di ciò che molto genericamente potremmo chiamare “forma classica” è sorprendente. L’antico rimane nella nostra coscienza come una sorta di dizionario dei sinonimi e dei contrari, cui attingiamo di continuo. Basti pensare ad alcune note immagini pubblicitarie: il discobolo “Lancellotti” riutilizzato per la pubblicità di una compagnia aerea; la sua postura risemantizzata per la campagna pubblicitaria di una fabbrica tedesca di ceramiche; le modelle che sfilavano per la collezione autunno/inverno 2002/2003, vestite di stoffe ventilate e fermate da nastri, secondo il paradigma fidiaco magnificamente espresso nei marmi del Partenone; la postura dell’Ares Ludovisi ripresa da Kate Moss in uno scatto di Annie Leibovitz per Vogue USA 1999. Ma è soprattutto l’arte contemporanea, l’artefice di una rivisitazione del classico spesso critica e problematica, come è accaduto per la serie delle “veneri”, che dagli Trenta in avanti hanno traslato – attraverso lo stereotipo classico della bellezza – significati completamente diversi dall’originale. Si pensi a Michelangelo Pistoletto e alla sua Venere degli stracci: l’opera è un assemblaggio composto di un mucchio multicolore di stracci, contro il quale sta la copia di una libera riproduzione della celebre Venere con mela dello scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen (1805, Museo del Louvre, Parigi); viene dichiarata così la fine della differenza tra arte colta e arte popolare, l’esuberanza della realtà contro il Bello ideale, che si pone fuori dal tempo. Nell’epoca di “guerriglia sociale” in cui ne vennero realizzate le prime versioni (dal 1964 in poi), poi, gli stracci furono accostati agli emarginati, a tutto quanto la società borghese rifiutava; volevano contrapporsi agli stereotipi del nudo femminile: contrariamente a questo, che della vita umana ha solo le sembianze, quei panni trattenevano davvero l’impronta o la memoria di chi li ha usati, toccati, vissuti. Ancor più provocatoria e straniante, la Venere a cassetti di Salvador Dalì rappresentava l’interpretazione data dall’autore alla teoria freudiana, per la quale il corpo nasconde zone d’ombra e segreti, qui fumettisticamente e simbolicamente rappresentati dai cassetti. Come a dire che il bello non è sempre buono e ribadire che l’arte che a quei parametri del bello s’ispira, è strumento di controllo sociale, non rispondente alle esigenze di un’umanità che i suoi segreti ha bisogno di scoprire. Modificato semanticamente, mancante di uniformità anche all’interno della temperie storica che l’ha creato, il termine “classico” diventa sempre più vago e indefinito. Che cosa dobbiamo intendere con esso? Un generico riferimento agli stilemi della statuaria antica? O piuttosto un certo modo di intendere la figura umana in rapporto alla natura e alla storia? Di sicuro è d’uso comune, oggi, usare quest’aggettivo per intendere un canone estetico che pone al centro del suo interesse il corpo umano, trattato secondo le regole della mimesi naturalistica; soprattutto, condizionato dai canoni seguiti dall’arte greca a partire dal IV secolo a.C. e mantenuti dall’arte latina fino al Medioevo, ossia: plasticità, armonia, equilibrio delle parti, levigatezza delle superfici. Nel tempo, come abbiamo visto, gli artisti hanno citato consapevolmente o rifiutato programmaticamente tali canoni. In questo senso, l’arte di Paolo non fa eccezione. È composta (fra statue, opere pittoriche e grafiche) da frammenti, segmenti anatomici di un’umanità non meglio identificata, silenziosa, dormiente. Una morfologia, che può essere definita – forse impropriamente –classica, perpetua un biancore che richiama gli antichi marmi e la loro compostezza grave nelle espressioni dei volti; richiama le gallerie degli antichi uomini illustri, le raccolte archeologiche da cui lui stesso si dichiara particolarmente affascinato ma anche le gipsoteche, luoghi in cui la riproduzione delle statue antiche diventa strumento di mediazione e di studio, ai fini di una migliore comprensione dello spirito dell’antico. A rompere la compostezza, il rigore, anche la misura entro cui il gusto per l’antico ci colloca e con cui ci tranquillizza, ecco comparire un elemento fortemente contemporaneo e dirompente: il taglio. Spezzata la continuità della superficie, alterato il rapporto tra i piani del volto, moltiplicato il volume nello spazio, disincarnata la memoria mimetica della forma, si apre un orizzonte di domande e di significati da scoprire. Ciò che credevamo di sapere, non lo sappiamo più.

Nell’arte contemporanea, il fendente che colpisce la forma, o attraversa lo spazio in cui essa si produce, ossia il supporto (ad esempio, le tele di Lucio Fontana), è spesso stato posto in relazione all’esigenza, per l’artista, di superare il limite della bidimensionalità; cosa facile per la scultura, meno per la pittura, la quale trasforma il suo rapporto con la realtà nel più bello degli inganni per gli occhi. Nel momento in cui Fontana compie il gesto di attraversare la tela sulla quale si appresta a dipingere, la realtà – per come s’è sempre conosciuta – è cambiata; anzi, ha senso parlare ancora di realtà e della sua rappresentazione, se relatività, meccanica quantistica e geometrie non euclidee sono le nuove leggi di uno spazio indeterminato, le cui dimensioni non sono più neppure tre ma quattro, visto che dobbiamo considerare il tempo? La superficie piana del quadro può essere ancora l’alter-ego del nostro mondo? Come dice Mauro Covacich è a quel punto che Fontana posa il pennello e va a prendere il rasoio, sprofonda nella superficie della tela e quella fenditura, che pure prende forma e colore, la chiama Attesa. Non è solo la tridimensionalità dello spazio fisico che è così superata, forse anche i limiti di una condizione esistenziale, di un pensiero che si vede costretto a concepire un “oltre”, non solo da sé ma di se stesso. Allo storico dell’arte viene subito da pensare: ci sono stati altri momenti nella storia umana, nei quali l’allargamento dello spazio esterno ha corrisposto ad un allargamento dello spazio interno; processo rivelatosi lacerante, benché produttivo (penso alla scoperta dei nuovi mondi geografici, dello spazio copernicano e della nuove frontiere del pensiero filosofico). E poi ogni arte, tutta l’arte può essere considerata la spazializzazione di un pensiero; l’idea, nell’arte, sempre si realizza attraverso il rapporto con lo spazio, è rapporto con lo spazio che diventa trasposizione metaforica dell’io. E ancora: anche il taglio in sé e per sé nella storia dell’arte ha una sua storia. Potremmo parlare per ore, per esempio, dell’iconografia di Giuditta che decapita la testa a Oloferne: un tema raffigurato dal 1400 in avanti. E che dire di quel Rinascimento, che dette l’avvio a nuove prospettive scientifiche ed umane? Vero secolo della dissezione della materia e dell’anima, e che naturalmente ha un rapporto con la classicità ma più conflittuale e dinamico. Anatomia, ana ? in; tomè ? taglio. «Anatomia è una donna; così la vediamo raffigurata sul frontespizio delle tavole anatomiche di Julius Casserius (1627), assisa su un trono, mentre regge tra le mani un teschio e uno specchio: un’elaborazione dell’iconografia tradizionale della vanitas». Più tardi, in un’opera analoga di Theodor Kerckring, la ritroviamo armata di coltello: inutilmente due putti tentano di distrarla dalle sue operazioni autoptiche.Nell’immaginario mitologico, il potere di dividere, separare ciò che appare unito, è ambivalente, può essere compiuto per violenza o per amore. Esiodo, nella Teogonia, narra che la prima azione di Anatomia fu anche una nascita: quella di Atena dalla testa di Giove; e fu Giove stesso a compiere un taglio anatomico, separando gli esseri umani per far nascere la differenza di genere. Così, la fenditura in epoca seicentesca diventa figura fantastica dell’arrendevolezza dell’uomo alla seduzione, da un lato; dall’altro, è l’unità stessa dell’uomo rinascimentale quella che viene a essere intaccata e spaccata: la razionalità del pensiero umanistico, la certezza della sintesi religiosa e filosofica che il Rinascimento aveva creduto di poter per sempre mantenere. Intanto, mondi nuovi e un nuovo spazio senza confini compaiono all’orizzonte, come recitano i versi tratti da Anatomia del mondo, del poeta metafisico inglese John Donne:

(…) apprendi questo dalla nostra Anatomia, (…)
Poiché la bellezza del mondo è decaduta, o svanita,
la bellezza, che è colore e proporzione.
Noi pensiamo che i cieli godano della loro
circolare proporzione che tutto abbraccia.
E tuttavia il loro corso variato e perplesso,
osservato in epoche diverse, costringe
gli uomini a scoprire tante parti eccentriche,
tali diverse linee verticali e tali trasversali
da sproporzionare quella pura forma. (…)

Ebbene, quelle «parti eccentriche», quelle «diverse linee verticali» e «tali trasversali da sproporzionare quella pura forma» hanno attraversato i secoli e sono state ritrovate da Paolo. E la forma fuori proporzione, aperta e secata, è quella cui ci sottoponiamo ogni volta che accettiamo che la nostra unità (che è anche la nostra corazza) sia spezzata, messa in discussione, proiettata in spazialità inusuali, accogliente chi, a noi simile, è da noi completamente diverso. «…amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso», scriveva Kafka alla sua amata Milena. Qualcuno ha impugnato una soffice lama anche per Paolo.

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