Si può rimaner confusi se si giunge dall’altra parte del globo e si continua a respirare un’aria familiare. Nelle colline di Hollywood, nella zona più idilliaca di Los Angeles, ibiscus, oleandri e buganville regalano un inebriante profumo di Sardegna. Nella nostra isola non esistono i coyote, nè l’economia più produttiva al mondo, ma esiste la luce, lo stesso clima mite e gli stessi vini dolci. Persino le famiglie più ricche di Hollywood offrono ad amici e turisti un’ospitalità sacra, così come ricchi e poveri offrono in Sardegna il meglio di ciò che hanno. L’amore per il cibo sano e la dieta equilibrata distingue il californiano dalla maggior parte degli statunitensi e se si cerca un ristorante italiano in città la scelta è molto più che varia. A Westwood, nella parte occidentale di questa immensa metropoli, si trova “La Campagnola Trattoria”, ristorante italiano di Carlo Podda. È il primo risultato che si ottiene digitando su Google «Ristorante sardo a Los Angeles», e quando si arriva là, alle porte del ristorante, c’è sempre lui, magro, capelli scuri e sorriso autenticissimo ad offrire il benvenuto.
La “Campagnola Trattoria” è appena stata restaurata dopo 19 anni dalla sua apertura. Ciò che la rende speciale è l’informale gentilezza del suo gestore. Podda lasciò la Sardegna a 18 anni. Dal profondo Sulcis, a Carbonia, si trasferì per 4 anni in Liguria dove iniziò a lavorare nel settore ristorativo, poi passò altri quattro anni a Parigi, e infine nel 1983, arrivò a Los Angeles. Fu trascinato in California da un amico e nessuno dei due mai se ne è più andato. Quanto ancora si può sentir sardo dopo ben 30 anni? A pagina 3 del menù sembra di trovar la risposta: “Malloreddus”. Le radici non si scordano, neppure a LA. I suoi clienti sembrano conoscerlo da una vita. Lo chiamano per nome e gli offrono un grosso abbraccio. Un mix esotico di amichevolezza californiana ed autenticità sarda. Nel bar c’è anche la bottiglia del mirto Zedda Piras, e da qualche parte nascosta in cucina, un po’ di bottarga per gli ospiti speciali.
Lo chef sardo si presta facilmente alle conversazioni. «Le colline di Hollywood sono più belle dal vivo che sullo schermo e il loro profumo ricorda in qualche modo la Sardegna». Ma poi si ritrae: «Anche se, in realtà, non si possono fare molti paragoni con la nostra amata isola». Nessuno parla di Los Angeles per la sua bellezza. La fabbrica dei sogni rimbomba di suoni e architetture troppo artificiali per esser considerate belle, e la vecchia Europa sbiancherebbe nell’osservare l’infinità di asettici centri commerciali, fast food, stazioni di benzina e parcheggi. I concetti di polis e agorà non sfiorano nemmeno la sua conformazione fisica. Nessun centro focale, solo moltissime strade che uniscono innumerevoli quartieri. Tutto gira intorno alle macchine. «Dicono che un “angelino” (così si chiamano gli abitanti qui) non incontra un’altra persona in carne e ossa per un’intera giornata se non al semaforo, quando apre il finestrino».
Scherza ovviamente. Esistono angelini che vanno in ufficio, altri che fanno surf, angelini che fanno jogging sotto il sole e networking nei bar. Ma ciò che più affascina di questa metropoli è certamente il rispetto per le idee e la creatività. Una persona su sei lavora nell’industria creativa, «ma tantissime altre fanno lavori normali, proprio come me», specifica.
A volte qualche attore arriva al ristorante: Michelle Pfeiffer, Ben Kinsley, Benicio Del Toro, tanto per citare i più affezionati clienti. Quando gli si chiede cosa più gli manchi della Sardegna risponde: la birra Ichnusa, su porceddu e il mare, perché qui l’oceano non lo vede mai. Passa le sue giornate al locale, mangia poco e ogni mattina legge il Los Angeles Times. Al domandargli se conosce la situazione di crisi italiana il suo sorriso si spegne. «Certo», si rattrista, ma sebbene lui torni a casa una volta ogni due anni, la realtà economica in cui vive è assai lontana. Confrontando i salari angelini con quegli italiani sembra che tutti qui facciano fortuna. Ma se si imbocca una strada sbagliata a Downtown si rimane turbati dai moltissimi barboni sulla strada.
Cosa sente di essere ora, italiano o americano? «Sardo», risponde. Sogna di poter tornare un giorno a casa per la pensione e riappropriarsi così della sua natura.
L’industria dei sogni funziona insomma, sia che si tratti di sogni megagalattici, sia che di sogni semplici e schietti. Sia che da un sobborgo di periferia si voglia conquistare lo splendore di Hollywood, sia che dalla terra della produttività si aspiri a tornare su un’isola perduta. Tutto è in fondo lecito nella città degli angeli, l’importante è che non si smetta di sognare. Mai.
IO NON SONO VIP… MA I MALLOREDDOSO LI MANGIO SPESSO E VOLENTIERI