Il mio interesse per l’Afghanistan è nato nel 2009, mentre venivo sottoposta a duri cicli di chemioterapia. Nelle mie condizioni di salute non era ovviamente possibile partire per realizzare un reportage, ma nonostante ciò ho iniziato a documentarmi nella speranza che, una volta terminate le terapie, potessi realizzare il sogno di un reportage in una terra così lontana e incomprensibile. In quei mesi in Afghanistan era schierata la Brigata Sassari, desideravo poter raccontare l’operato dei militari, il loro coraggio, la loro vita al fronte. Ho iniziato a chiedere consigli a militari e giornalisti che erano già stati lì, ho cercato di raccogliere più informazioni possibili, dalle più banali alle più importanti, perché per recarsi in aree di crisi è necessario adottare diversi accorgimenti e precauzioni. I giornalisti che vengono accreditati al fianco dei nostri contingenti schierati nei teatri operativi vengono chiamati in gergo embedded; chi decide di partire al seguito dei militari deve avere una forte motivazione e un grande spirito di adattamento. Nel 2011 la Brigata Sassari è ritornata in Afghanistan, quindi ho richiesto allo Stato Maggiore della Difesa di partire come embedded al fianco della Brigata. Mi sono ritrovata a Roma con altri cinque giornalisti, tra i quali anche uno sardo, Pier Luigi Piredda. Siamo partiti tutti insieme verso Herat, e poi ci hanno separato a seconda dell’attività che ci interessava documentare. Gli embedded conducono la stessa vita dei militari, sveglia presto, veloce colazione e subito operativi in base oppure pronti per le uscite a bordo dei mezzi blindati Lince o degli elicotteri americani Black Hawk. Nessuna attività veniva organizzata per noi giornalisti, ma noi documentavamo quelle che erano le reali e quotidiane attività dei nostri militari. Generalmente le missioni in Afghanistan durano sei mesi per ogni contingente, sei mesi lontano dalla famiglia e dagli affetti sono sicuramente difficili, ma i sassarini sono tra loro molto uniti e affiatati, sono una seconda famiglia, questo rende sicuramente più semplice il trascorrere delle settimane. Ormai da oltre dieci anni anche le donne fanno parte delle Forze Armate Italiane, ma suscitano nei media ancora tanta curiosità. Molte di loro però preferiscono stare nell’ombra, non amano farsi fotografare ne intervistare, non amano le “pressioni” dei giornalisti. Non vedono la loro professione così eclatante, è per loro una scelta di vita, in fondo come chi decide di fare il medico o il reporter. Le donne arruolate sono giovani, molte sono single e chi è già sposata lo è generalmente con un collega. Ammettono che la vita militare è complessa, difficile da capire e condividere, ritengono che un compagno militare possa essere più comprensivo e in grado di capire le dinamiche della vita in divisa. Alcune sono già mamme, e con il grosso supporto dei papà che restano in Italia cercano di far pesare ai figli il meno possibile il distacco; le nuove tecnologie come Skype e le video chiamate aiutano sicuramente. Le soldatesse sono coraggiose, determinate e sicure di sé. Alcune hanno padri o fratelli arruolati nelle Forze Armate Italiane, altre, sono invece i primi militari di famiglia.
Ormai sia in patria che nei teatri operativi gli incarichi femminili sono i più disparati. Ho conosciuto donne mission monitor dei Predator, medici al servizio del Prt (Provincial Reconstruction Team), piloti di Mangusta, autisti di mezzi blindati Lince e cuoche alle mense. L’Afghanistan è un teatro operativo molto difficile, sia per la complessa conformazione geografica, che per la diversità religiosa e culturale. La presenza del personale militare femminile diventa quindi molto importante in un contesto come questo. Le soldatesse del FET incontrano le donne afghane, ascoltano le loro esigenze al fine di realizzare dei progetti che consentano un miglioramento delle loro condizioni sia nel contesto famigliare che sociale. Donne e uomini devono impegnarsi allo stesso modo ma, per ovvie diversità caratteriali, le donne sono più predisposte allo svolgimento di alcuni incarichi. L’interazione e la complementarietà del personale femminile con quello maschile permettono un intervento mirato sui diversi fronti rendendo così più agevole il raggiungimento degli obiettivi che la missione si è prefissata. Lo staff di Radio Bayan West si occupa delle trasmissioni radiofoniche affiancando e formando giornalisti e giornaliste afghane. Il palinsesto, rivolto esclusivamente alla popolazione locale, prevede news, rubriche e approfondimenti che vengono diffusi nelle lingue sia pasthto che dari. Al team dello PSYOPS sono invece affidate le “comunicazioni operative”, ovvero quell’insieme di attività volte a consolidare la fiducia della popolazione locale nei confronti dei contingenti militari impegnati nella missione ISAF. Le comunicazioni avvengono sia con l’ausilio dei tradizionali mezzi di comunicazione, che attraverso la diffusione di messaggi tramite gli altoparlanti, il lancio di volantini o di messaggi televisivi e radiofonici. Tutte le comunicazioni vengono accuratamente studiate affinché la popolazione possa agevolmente comprenderne il messaggio, i testi vengono quindi affiancati da simboli o immagini facilmente riconoscibili. Il mio primo viaggio in Afghanistan è stato breve ma ricco di emozioni; tra me e il collega Pier Luigi Piredda, inviato del quotidiano La Nuova Sardegna, si è creato un ottimo feeling professionale. Dopo il nostro rientro abbiamo continuato a lavorare sui sassarini documentando gli arrivi, gli abbracci con le famiglie e la festa di fine missione. Visto ed esaminato tutto il materiale raccolto, grazie all’editore Carlo Delfino che ha sposato il nostro progetto, abbiamo pensato di realizzare una pubblicazione dal titolo “Sotto il cielo di Herat. La Brigata Sassari in Afghanistan”. “La Brigata Sassari ha operato in un contesto complicato e contraddittorio, ma nonostante le difficoltà è riuscita a superare le barriere culturali, riuscendo a non calpestare ma la dignità di un popolo fiero. I pochi giorni trascorsi in Afghanistan sono stati importanti per capire come i sassarini si sono proposti e hanno lavorato laggiù a contatto con le popolazioni locali. Questo è un racconto di quei giorni.” Consapevole che la mia era stata solo una visione parziale della missione ISAF in Afghanistan, ho continuato a tenermi informata sull’operato del nostro contingente. Ad ottobre del 2012 faccio parte dei 30 selezionati che prendono parte al corso per giornalisti da inviare in aree di crisi organizzato dallo Stato Maggiore della Difesa in collaborazione con la Federazione Nazionale Stampa. Due settimane intense di teoria ed esercitazioni in giro per l’Italia, comprese le simulazioni di attentati e sequestri da parte dei talebani. Una esperienza anche questa importantissima, perché è fondamentale conoscere le procedure di sicurezza quando si ricopre il ruolo di embedded, per non mettere a rischio la sicurezza nostra e quella delle nostre scorte. A dicembre del 2012 l’Agenzia milanese Kika Press mi affida l’incarico di documentare il Natale delle nostre truppe in Afghanistan. Anche in questo secondo viaggio non parto da sola, ma vengo inserita all’interno di un media tour insieme ad altri 7 giornalisti. Una volta arrivati ad Herat, per ragioni logistiche, veniamo suddivisi in due gruppi. Io vengo abbinata a Samantha Viva giornalista catanese, Katiuscia Laneri videoreporter napoletana e Marco Alpozzi fotografo torinese. Questo secondo viaggio è stato più lungo e faticoso, eravamo in pieno inverno e le temperature sono scese addirittura a -17° e gli imprevisti sempre dietro l’angolo; dalla tenda che si sgonfia per lo sbalzo termico, ai climatizzatori andati in tilit alle tubature dell’acqua ghiacciate. Il nostro team è stato comunque molto affiatato e ci siamo supportati nelle due settimane in giro nell’ovest dell’Afghanistan. Abbiamo voluto raccogliere le testimonianze delle donne dell’ovest, ma allo stesso tempo volevamo dar voce anche ai combattenti e agli anziani dei villaggi. Ognuna di noi aveva il suo incarico professionale da portare a termine, ma al nostro rientro io ho dato l’input per poter realizzare qualcosa insieme, un nostro progetto, un racconto unico. Realizzare un progetto dopo il nostro rientro in Italia, non è stato semplice anche perché stando in tre regioni differenti tutto si complicava. Una volta costruito il progetto, il secondo compito difficile era trovare un editore che credesse nella nostra idea. Lo abbiamo trovato in Sicilia, Salvo Bonfirraro, titolare della casa editrice Bonfirraro, che senza esitazione ha sposato la nostra idea, ha voluto scommettere su tre donne del sul e sul loro viaggio come embedded. Ha creduto in noi e in “Afghan West, voci dai villaggi”. “Il nostro libro non è un romanzo, non è un reportage classico sull’Afghanistan o su una sua parte, non è un trattato di storia, è solo il viaggio di tre giornaliste che da embedded hanno visto un tratto di Afghanistan, tra Herat e Farah, nel momento in cui è in atto la transizione del potere. Con tutta l’umiltà di chi ha visto solo una parte di un grande paese, ma con la consapevolezza che le parole raccolte, che siano di un afghano o di un italiano in divisa, non vanno mai perse e meritano comunque di essere raccontate.” Nella nostra permanenza in Afghanistan abbiamo incontrato le donne della radio Sharzad, quelle che lavorano nel Woman Social Center, una sorta di centro commerciale per sole donne, dove oltre alle botteghe artigiane, le donne studiano l’inglese o imparano ad utilizzare il computer, e nei momenti di relax vanno in palestra in t-shirt e pantaloncini corti. Abbiamo intervistato le prime donne sottufficiali dell’esercito afghano e le dottoresse dei piccoli ospedali e ambulatori. “La difficoltà, per il mondo occidentale, di capire che il burqa non può essere una questione occidentale, perché l’universo islamico è sfaccettato e la comprensione di un popolo e il rispetto per la sua cultura vuol dire anche saper guardare le cose con gli occhi dell’altro. Le donne di Herat stanno già facendo la loro battaglia ed esigono rispetto. Ci sono donne che preferiscono il carcere ai matrimoni di convenienza, e qui a Herat trovano nel “carcere” femminile una sorta di casa di accoglienza, dove possono condurre in disparte la loro vita. Per questo è essenziale comprendere che non possiamo limitarci a dare uno sguardo sul burqa ma uno sguardo dall’interno, dalla complessità dei loro rapporti e del loro mondo, calarci nei loro panni e vedere, a stento, cosa significa guardare il mondo dal burqa, come ciechi che procedono a tentoni, ma che nonostante tutto hanno deciso di scendere in strada.”
I viaggi in Afghanistan hanno rappresentato la mia rinascita dopo i cicli di chemioterapia; con i miei reportage ho voluto raccontare la rinascita dell’Afghanistan durante la missione Isaf. Le mie terapie si concluderanno nel 2014 in concomitanza con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Io la mia battaglia spero di averla vinta, mi auguro che il popolo Afghano vinca la propria.
*La parte virgolettata è tratta dal libro Afghan West, voci dai villaggi.