L'URLO DELL'ALBA: L'ISOLA DI SARDEGNA MUSA ISPIRATRICE DELLA POESIA DI MARC PORCU

nella presentazione di Milano, Marc Porcu con Pasqualina Deriu


di Sergio Portas

Ci voleva Marc Porcu (si pronuncia Porcù visto che dalla natia Tunisia a tre anni è emigrato a Lione con la famiglia, padre sardo e madre arabo-siciliana) perché riprendessi in mano il mio libro “Feltrinelli” con tutte le opere di Rimbaud, a segnalibro un biglietto per accedere alle prove del gran premio di Montecarlo datato 3 giugno1973, mi ricordo che quel giorno faceva un caldo boia. Non deve essere il mio poeta preferito. Giovanni Dettori che ha tradotto “Le cri de l’aube”, l’urlo dell’alba, il libro di Marc che presenta oggi a Milano, alla libreria dinanzi all’università statale rinascimentale di Milano, la “Ca Granda” che il duca Francesco Sforza commissionò all’architetto fiorentino che volle farsi chiamare Filarete (colui che ama le virtù), inizia invece il suo splendido lavoro proprio con una citazione del “poeta maledetto”, prendendo dalle “Illuminazioni” quel verso che termina con – aspetto di diventare un pazzo molto cattivo. E lo scrittore bittese continua chiamando a  conferma Giovenale: se la natura lo impedisce, è l’indignazione che crea il verso. Arthur Rimbaud è uno dei poeti di riferimento di Marc, aveva 17 anni quando a Sedan, due passi da casa sua Charleville, finì ingloriosamente, mercè i prussiani del feldmaresciallo von Moltke, il secondo impero francese di Napoleone terzo, era il 1870. Se ne andò a Parigi dove i “comunardi” avevano ristabilito una repubblica a misura d’uomo, e l’avventura fece così paura al governo borghese di Versailles che la “Comune” venne spenta in un bagno di sangue, proletario. Il giovane Rimbaud visse in quei tempi di restaurazione. Fu scrittore e poeta giusto per quattro o cinque anni, bastarono per diventare uno dei poeti più importanti e affascinanti e difficili della moderna letteratura europea. Alcune delle poesie di Marc, come scrive Dettori nell’introduzione, forse fra le più intense della raccolta, vi affondano le radici. Le altre stelle a cui guarda sono Campana e Pasolini, Senghor e Yassin Hussin e Sergio Atzeni.  A lui Porcu dedica addirittura il libro: “A Sergio, mio fratello non nato dal ventre della stessa madre, che ci lasciò nello stesso mare…” E a “Ciu Grillu” mio nonno che dal mare di sant’Antioco lasciò la Sardegna”. E ad Annick, che da anni è la compagna della vita… Ai loro sogni… Di Sergio Atzeni Porcu ha tradotto quasi tutti i libri (manca giusto Bellas Mariposas), è per questo che quando gli dico che sono guspinese mi sbalordisce vantando una conoscenza inaspettata del paese. Ma ripensando al “Figlio di Bakunin”, in cui Atzeni scrive di Montevecchio e del paese di suo padre Licio, tutto mi torna chiaro. E poi lo sbalordisco io quando gli dico: “Licio Atzeni era compagno di scuola di mia madre, l’unico in classe che portasse le scarpe negli anni venti del novecento, che suo padre faceva il calzolaio”. In quegli stessi  anni il nonno di Marc, pescatore di Sant’Antioco, già combattente con la Brigata Sassari, piuttosto che vivere in una Sardegna che si era consegnata ai fascisti del Duce, presa barca e moglie incinta, con loro il cane di casa, veleggia verso le coste africane e sbarca in Tunisia. Non la lascerà più. E la Sardegna sarà per Marc l’isola raccontata, magnificata sempre e impressa come sigillo in ceralacca sui suoi geni paterni, sul cognome che porta: Porcu, ce ne è uno di più sardo? E questa isola che non calpesterà prima dei suoi tredici anni diventa inevitabilmente parte della sua poetica. Dice Tonino Mulas, presente insieme alla moglie Pasqualina DeRiu che fa una introduzione puntigliosa al libro di Marc, “tra le più belle poesie che io abbia mai sentito dedicate alla Sardegna”. “Ritorno in Sardegna”:  “… sulla strada bianca/ scoprire l’alfabeto dei gesti/sul bordo dei crepacci/ la lussuria del cardo/ i passi dissolti dal vento”. “ Vecchie donne di Sardegna”: “…sotto i lembi della notte/ scivolano i loro capelli di neve/ sparsi dal tempo/ in questo paese arroventato”. E nella “Lettra a Gramsci”: “…Ti scrivo in poesia, Gramsci/ lingua senza altro padrone tranne il ritmo/ del corpo rifugio della verità non alterata/ quando discorsi di cristallo e ferro/ tagliano le labbra ai figli e piagano/ le mani ai padri”.  E quando Marc, su preghiera dei presenti, si mette a declamare in francese, pare che un ruscello di significati venga a spandersi come cascata inarrestabile di fiume a primavera. Conta questa volta anche “le phisique du role”: Marc Porcu, credo non sia io il primo a ricordarglielo, pare un moschettiere della regina, alto com’è e con quei capelli lunghi,baffi e pizzetto alla D’Artagnan. Viene da una scuola in cui si impara presto a “essere duri”, la banlieue di Lione è come quelle di ogni città del nostro mondo popolata dalla gente più fragile, la più emarginata, quella che deve strappare coi denti i diritti alla vita, qui Marc ha insegnato per anni ai ragazzi più problematici , con situazioni famigliari le più  disparate e disperate nello stesso tempo. In questo libro una delle liriche è per la morte di un ragazzino, scambiato per il fratello “delinquente”, a un posto di blocco della polizia, sul suo motorino, con il casco regolamentare che ha aiutato il destino nell’equivoco di tragedia. Non è un libro di sole poesie questo, intanto vi sono foto in bianco e nero di Louis Sclavis, uno dei più importanti jazzisti francesi della sua generazione, clarinettista di vaglia internazionale, che ha ereditato dal padre anche l’amore per la fotografia, collabora infatti con gli artisti della “Magnum” (quella di Robert Capa e Henry Cartier- Bresson) fin dal 1982. Con lui e col figlio Dimitri, anche lui buon jazzista, Marc partecipa spesso a festival di poesia internazionale. Ma è capace di andare anche a Buocammino a declamare le sue poesie ai detenuti, come ha fatto nel dicembre dell’anno scorso. A Pasqualina che ha letto la sua poesia come fatta di isole che uno si porta dentro di sé, col navigare metafora del pensare, negandole una connotazione meramente autobiografica Marc risponde di una sua poesia come sabotaggio, come veglia anche sulla lingua dei poeti, come testimonianza e presa di coscienza, col dispiacere che essa non riesca, da sola, a cambiare il mondo. Dice anche che questo libro “è un romanzo”, a pag.115: “…Noi provenivamo da un Altrove, dalle isole del Mediterraneo e dall’Africa degli esiliati, potevamo dare colori stravaganti alle vocali ma erano le sillabe a tradirci come le nostre abitudini alimentari e i nostri riti tribali”. Considerando che i suoi scritti si pubblicano oramai da trent’anni quest’ultimo può ben definirsi una sorta di compendio di vita, impastato coi ricordi di una Tunisia in cui ebbe in sorta di assistere al ritorno del leader rivoluzionario Burghiba, il padre che lavorava a costruire una diga sul confine algerino, madre analfabeta che lavorava dall’età di otto anni nelle case dei “ricchi”. La Francia che gli darà lingua e identità, la traduzione dall’italiano di scrittori quali Luciano Marroccu, Sergio Atzeni, Flavio Soriga, Giovanni Dettori. Un nonno che pescava anche con le bombe tanto da perderci una mano. Una volta che ad Asiago Marc era con Rigoni Stern , indimenticabile scrittore de “Il sergente nella neve”, gli disse: “Stai camminando sulle ossa dei tuoi antenati”, riferendosi ai caduti sardi della Brigata Sassari, tra i più numerosi dell’esercito italiano. Scrive giustamente Dettori nella prefazione: “C’è un’isola e un antenato mitico all’origine della poesia di Marc Porcu, o meglio: in principio era un’isola e un antenato che si fece mito. Che poi si farà poesia”.

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