di Omar Onnis
Tre circostanze contemporanee e apparentemente slegate tra loro ci forniscono una sintesi esaustiva del circolo vizioso deprimente di cui siamo prigionieri. A sud dell’isola, presso Capo Teulada, si svolgono esercitazioni della NATO in grande stile. Niente di nuovo, si dirà, ci siamo abituati. Vero, ma non per questo è diventato più accettabile. Dopo decenni di sacrificio in nome altrui, la Sardegna ha tutto il diritto di pretendere di essere liberata dai giochi di guerra e dalle loro conseguenze dirette e indirette. Invece – in barba ai proclami e alle millanterie di politicanti nostrani, coerentemente e diligentemente dipendentisti – non solo le esercitazioni belliche proseguono, ma il governo italiano fa sapere – magari confidando di farci felici – che la Sardegna (e Capo Teulada in particolare) è destinata a ospitare ancora a lungo le attività militari italiane e straniere, nonostante l’indagine avviata dalla magistratura sui danni alle persone causati dalle esercitazioni. Una situazione insopportabile e non più accettabile, sia in nome della salute dei cittadini e della libera disponibilità del nostro territorio, sia anche per un fatto di dignità. A ovest, intanto, precisamente a Oristano, il consiglio comunale della città arborense dà il via libera a un mega progetto di speculazione edilizia della società IVI Petrolifera, a Torregrande. Una colata di metri cubi di cemento, ingentilita dal solito, immancabile campo da golf. Cose già viste, anche qui. L’insipienza politica, la debolezza etica e anche una certa dose di ignoranza crassa che contraddistinguono la nostra classe dirigente si manifestano in questa circostanza in tutta la loro evidenza. Il nostro sistema politico, mediocre e gerontocratico, non riesce ad affrancarsi da una visione del nostro territorio e di noi stessi subalterna e dall’orizzonte estremamente limitato. Ipotizzare che il benessere di un’intera collettività come quella oristanese possa discernere dagli affari speculativi di un’azienda privata, che si occupa tra l’altro di stoccaggio e commercializzazione di derivati dal petrolio, appare di una stupidità addirittura imbarazzante. Possibile che la classe dirigente oristanese abbia così poca fantasia e così poche competenze da non riuscire ad immaginare una destinazione diversa per Torregrande? Possibile che sia così facile cedere alle lusinghe di un privato e affidargli con tanta disinvoltura un bene comune, su cui sarebbe invece necessaria una pianificazione politica seria, fatta in nome e per conto della cittadinanza e in una prospettiva lungimirante? Anche questo è dipendentismo. Il paradosso della nostra condizione emerge in tutta la sua portata quando poi, per salvare la Sardegna dalle mire saccheggiatrici dei centri di potere dominanti, occorre rivolgersi all’esterno. In specie, a quello stesso stato italiano che, come abbiamo visto, della Sardegna ha per altri versi una considerazione esclusivamente strumentale, senza alcun rispetto per il nostro territorio e per la nostra popolazione, trattati come mere variabili dipendenti. Così accade che una legge regionale in materia di usi civici, approvata con molta disinvoltura da maggioranza e opposizione (al solito diversamente concorde, quest’ultima, quando si tratta di scelte deleterie) venga impugnata dal governo italiano e spedita di gran carriera alla Corte Costituzionale perché si pronunci in merito. I sardi devono difendersi dalla propria classe politica ricorrendo alla protezione dello stato centrale, quando sono in gioco beni comuni e prospettive di utilizzo responsabile del nostro territorio e delle nostre risorse paesaggistiche. Si dirà: giusto così, noi non siamo in grado di governarci responsabilmente, perciò siamo grati all’Italia che almeno ci protegge da noi stessi. C’è anche da dire che chi si oppone agli scempi, compresi coloro che hanno sollevato la questione specifica di quest’ultima legge, sono pur sempre sardi. Così come quelli che fanno valere il diritto e una prospettiva diversa nei casi delle trivellazioni indiscriminate o dei soliti tentativi di speculazione immobiliar-turistica. Per comprendere quanto succede e per cercare una via di uscita bisognerebbe avere uno sguardo di insieme, sia in senso sincronico (ossia sul presente, nel senso della larghezza), sia diacronico (storico, cronologico, nel senso della profondità). Quello che appare come un paradosso (lo stato italiano da un lato oppressore e dall’altro salvatore) è invece la conseguenza storica diretta di una serie di avvenimenti e di processi di media e lunga durata, di cui si deve tener conto. L’assoluta inadeguatezza della classe politica e dirigente sarda non è un caso e non è nemmeno un destino scritto nel nostro patrimonio genetico. Non c’è nulla di inevitabile nella mediocrità e nella meschinità di un personale politico e amministrativo incapace e subalterno, eticamente debole. Le indagini in corso anche in questi giorni sui gruppi cosiliari regionali, circa l’uso disinvolto dei fondi destinati ad attività politica, è solo un sintomo di questa situazione strutturale. Chi occupa ruoli decisionali e snodi strategici, in Sardegna, è da tempo selezionato in base al principio della cooptazione e al proprio conformismo, al proprio servilismo e alla propria incapacità di modificare lo status quo. I rapporti di forza e di dipendenza che ci vedono soccombere non sono però irreversibili. Il senso di responsabilità che spinge tanti sardi a riprendere in mano la questione della gestione del territorio e dei nostri beni comuni è a sua volta un patrimonio politico e culturale che esiste. Se è vero che nella vigenza dell’attuale ordinamento giuridico e nella contingenza della nostra situazione politica diventa a volte salvifico ricorrere a organi dello stato italiano per avere ragione della nostra stessa classe dirigente, è altrettanto vero che quello stesso senso di responsabilità può tradursi in azione diretta, può generare una assunzione di responsabilità a tutti i livelli, che ribalti la nostra condizione di dipendenza morale e culturale, prima ancora che politica. E non dentro gli schieramenti oggi dominanti, funzionali al sistema di potere italiano e sue dirette emanazioni, bensì aprendo un fronte diverso, in cui i sardi diventano cittadini a tutti gli effetti, soggetti politici pienamente dispiegati, e non più sudditi sotto tutela. Sembra un compito difficile e lo è. Tuttavia non solo non è impossibile ma è anche necessario. Il nostro futuro sarà un futuro di responsabilità di noi stessi, fuori da qualsiasi subordinazione a interessi estranei, in relazione aperta col mondo, oppure non avremo futuro. E il futuro comincia già oggi.