di Giovanni Runchina *
Spagna, Malesia, Thailandia, Laos, Vietnam, Cambogia, Birmania, Singapore, Indonesia. Migliaia di chilometri a spendersi in nome di un’utopia possibile: la gestione pacifica dei conflitti. Federica Sestu, 38 anni, vive a Barcellona dove si occupa di danza terapia. «Il mio compito – dice – consiste nel facilitare la trasformazione creativa dei contrasti attraverso l’empatía kinestésica, il legame fra due esseri umani derivante da una comunicazione autentica non verbale. Nei miei viaggi, conoscendo persone di diversi paesi, ho capito che c’é un modo di dialogare immediato, che va oltre le parole. E’ il linguaggio universale dell’anima. Io sono il ponte che mette in contatto due parti avverse e ne facilita il dialogo; la soluzione, però, è sempre nelle loro mani». Una passione, quella di Federica, che viene da lontano. Dal suo soggiorno a Barcellona mentre era ancora studentessa di Lettere Moderne all’università di Cagliari. «Nel 1999 ho ottenuto una borsa Erasmus di dodici mesi all’Universitat Pompeu Fabra. A Cagliari mi sono sempre sentita un’extraterrestre; avevo bisogno di continui stimoli mentali e culturali e la città mi stava stretta. Nella capitale catalana ho trascorso un anno molto proficuo dal punto di vista culturale e umano e non potevo rinunciarci; così ho deciso di restare dov’ero e di finire gli studi. Mi sono laureata nel 2001. Dopo ho preso una seconda laurea, a distanza, all’Icon (Italian Culture on The Net), in “Lingua e Cultura Italiana per Stranieri”. Ho anche conseguito il master in “Terapia attraverso il Movimento e la Danza”, alla UB (Universidad de Barcelona) che ho finito applicando la danzaterapia a persone che soffrivano di diverse patologie contemporaneamente: non vedenti, non udenti e autistici o síndrome di Down allo stesso tempo. Lavoravo bendata e con i tappi alle orecchie per entrare nella loro stessa dimensione ed ho scoperto tantissime cose. La terapia funzionava perché erano loro che si prendevano cura di me; avevano un ruolo attivo che nessuno gli aveva mai dato prima». Per dare sostanza economica a questo percorso, Federica non si è risparmiata e ha fatto di tutto: aiuto pizzaiola, responsabile della sicurezza di sala in un museo, teleoperatrice, segretaria, professoressa di danza orientale e contemporanea nei centri civici e, privatamente, d’italiano. Dopo gli studi, la seconda sfida: un viaggio in Asia, coronato con la fatica e l’ennesima scommessa vinta. «Dovevo metter soldi da parte in fretta – racconta – e così decisi di tentare la selezione come macchinista della metropolitana di Barcellona per sostituire il personale che andava in ferie. Le prove psicotecniche durarono una settimana. Ci presentammo in 3000 e dovevano sceglierne 30. Io fui tra i vincitori. Per tutta l’estate 2009 ho condotto i treni della linea 3 di Barcellona, turno del mattino. Mi alzavo alle 3 per andare in bici fino alla fermata, dove aprivo i cancelli al pubblico alle 4,45. Nei fine settimana facevo anche la ballerina. Spesso, finivo lo spettacolo alle due, mi toglievo l’abito di scena e indossavo l’uniforme da autista. Per arrotondare, subaffittavo la mia stanza a turisti. Fu massacrante ma, ogni giorno, quando mi alzavo dal letto di pessimo umore, visualizzavo il mio obiettivo e tiravo avanti perché avevo una grandissima motivazione». Mesi durissimi poi, nell’ottobre del 2009, l’inizio del tour nel sud est asiatico, durato un anno: «Partii col mio compagno dell’epoca che faceva il fotoreporter. Ci fermavamo in orfanotrofi o in associazioni che aiutavano i bambini disagiati. Io offrivo il mio lavoro come danzaterapeuta e lui lo immortalava; in cambio ci davano l’alloggio, raramente il vitto. Dormivamo in posti inconsueti e mangiavamo ciò che c’era, spesso nulla, ma accompagnati dal sorriso di centinaia di piccoli». L’imponderabile però cambia la traiettoria di una storia che pareva già scritta. «Un’agenzia di viaggi esclusivi entrò in contatto con il mio compagno per fare il catalogo di hotel lussuosissimi. Ci trovammo immersi in una realtà opposta a quella che avevamo conosciuto. Lavorai come modella per la pubblicazione. Stavamo tre notti in ogni struttura, nella suite imperiale con maggiordomo, piscina privata e ogni sorta di comodità». Finita l’esperienza, Federica ritorna in Europa per continuare a occuparsi di mediazione, tra difficoltà sempre crescenti. «A Barcellona ho fondato l’associazione onlus Moving Peace (www.movingpeace.org), tuttora esistente, che si occupa di diffondere la pace e di mediare i conflitti attraverso la danza, il teatro, la musica e l’arte in generale. Ho conseguito un altro master specifico e pubblicato articoli su varie riviste specializzate in Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il comune di Barcellona mi ha coinvolto come Mediatrice Interculturale in un progetto dedicato a donne immigrate nel quartiere del Raval. I risultati sono stati impressionanti ma esperienza è finita per mancanza di fondi. Da quel momento in poi, ho svolto tutto gratuitamente, dato che il governo spagnolo ha chiuso i finanziamenti per questo tipo d’iniziative». Proprio la mannaia statale sulle risorse dedicate al sociale l’ha spinta a guardarsi attorno e a scommettere su se stessa ancora una volta. Nel gennaio 2013 Federica è tornata in India, stavolta come volontaria in un programma con i bimbi più poveri di Bangalore, concluso pochi mesi fa. Ora la terapeuta cagliaritana è tornata in Spagna e fa spesso la spola con la Sardegna. Il contatto frequente con la terra natale, per certi versi inaspettato e legato all’imminente maternità e alle prospettive incerte, lo vive con un sano fatalismo. «Ho un rapporto di odio-amore con l’isola. Tutto ha un senso, anche se ora, non riesco a coglierlo. Mi sento ormai cittadina del mondo; l’unica cosa che mi spaventa è assistere a discorsi razzisti o basati sull’intolleranza. Le differenze non sono un pericolo e vanno usate a vantaggio del bene comune». Convincimento maturato nella sequela di viaggi per il mondo che Federica Sestu consiglia a tutti. «Credo che sia essenziale viaggiare, conoscersi e confrontarsi per mettersi in discussione. Solo così si possono percepire altri modi di vita, spesso meno comodi del nostro. Alla fine ciò che accomuna un bambino indiano che vive in uno slum a uno sardo che gioca alla playstation è sempre e solo l’umanità».
* Sardinia Post