di Ignazia Scanu
La scuola italiana era il più grosso problema dello Stato. La cosa si è palesata con buona evidenza fin dalle prime battute del governo Berlusconi. A giocare di sponda hanno contribuito i pregiudizi degli italiani che quando vogliono indicare una categoria di lavoratori che non lavorano né punto né poco indicano sempre gli insegnanti. Colpevoli di avere moltissime vacanze estive, di grattarsi le mani (per non dire altro) l’intera giornata e di rubare in buona sostanza lo stipendio. Amen. Per risolvere la questione, dal momento che trattasi di governo decisionista e maschio, via con una buona limata d’insieme. Fuori tutti, in sostanza. E adesso tocca all’università, dove c’è da vincere un’organizzazione feudale che ha portato nel corso degli ultimi anni i figli degli ordinari a diventarlo anch’essi, talvolta addirittura in facoltà assolutamente estranee al proprio titolo di laurea. Come a dire: quando devi arrivare, devi e basta. Che una riforma in tal senso fosse necessaria sono d’accordo anch’io per riconoscerlo. Mi domando solo se la sbandierata oggettività con la quale si afferma che saranno d’ora in poi gestiti i concorsi, o le decurtazioni sullo stipendio per i rei di mancate pubblicazioni scientifiche siano davvero misure a prova di bomba. Perché con estrema franchezza non credo che una lobby come quella dei professori universitari, che per inciso ha svariate rappresentanze e ramificazioni nel Parlamento italiano, permetta una normalizzazione del fenomeno senza battere ciglio. Sia disposta a votare e plaudire per una riforma che, sulla carta, taglia i rami giovani della propria pianta. E non gli si stia invece dando l’escamotage già pronto per mantenere il proprio potere. E magari ricoprire anche posti di rappresentanza qua e là. Perché sarà pur vero che la scuola era il grande problema dello Stato ma limitatamente ai pesci piccoli. Le aragoste continueranno sempre ad essere protette.