di Costantino Cossu
Un canto sottovoce, come una preghiera: sono piccole le tue forze e quando la potenza della grande macchina del mondo ti sovrasta hai per resistere solo parole umili e familiari, dette che nessuno oda, ogni comunicazione vana, ogni socialità sospesa. Canta sottovoce Ida, la protagonista del romanzo d’esordio di Paola Soriga, «Dove finisce Roma», che Einaudi Stile libero manda in libreria oggi (140 pagine, 15,50 euro). Canta piano nel freddo e nel buio di una grotta in una cava sotto un pratone a Centocelle, nella primavera del 1944, durante l’occupazione nazista della città eterna. Ida, diciassette anni, è una staffetta partigiana. S’è rifugiata nelle viscere della terra per sfuggire alla caccia dei torturatori di via Tasso, dopo aver seminato i fascisti che la inseguono per le strade di Roma. E’ il 30 maggio: mancano cinque giorni all’arrivo delle truppe americane e alla fuga dei tedeschi. In questo breve lasso di tempo, dal 30 maggio al 4 giugno, si svolge l’azione del romanzo, con continui flashback, però, che allargano il racconto sino a comprendere l’intero arco dell’adolescenza di Ida. Sì, perché Ida a Roma arriva, per la prima volta, una domenica di settembre del 1938, quando ha appena compiuto dodici anni (è nata il 24 luglio del 1926). Ci arriva dalla Sardegna insieme con la sorella maggiore Agnese e con il cognato Francesco, che nella capitale lavora già da qualche anno, impiegato in un ministero. Attraversa il mare, Ida, per fuggire dall’ambiente opprimente del piccolo paese del Campidano dov’è nata. I suoi non possono farla studiare, ma, oltre a questo, Ida mal sopporta il ferreo sistema di controllo sociale che inchioda gli individui a ruoli — familiari, di ceto e di genere — che la ragazzina avverte inautentici, ingiusti. Spera che a Roma tutto cambierà. E, infatti, tutto cambia. E non tanto perché la morsa del controllo si allenti (Francesco e Agnese non sono tanto diversi dai genitori di Ida), quanto perché, esattamente un anno dopo che Ida ha varcato il Tirreno, scoppia, nel settembre del 1939, la guerra. Comincia la seconda grande carneficina del secolo, l’orrore che a poco a poco e sempre di più entra nella vita di Ida, della sua famiglia, dei suoi amici, come una potenza estranea e implacabile, che piega a sé i destini di tutti. Subito sono razionati i generi di prima necessità, ma poi figli e padri muoiono in battaglia, donne e bambini sono massacrati dalle bombe americane e inglesi, con l’armistizio la città viene occupata dai tedeschi, dal ghetto ebraico partono in tanti per un viaggio senza ritorno verso i lager hitleriani. Ida entra nella Resistenza dopo le Fosse Ardeatine. Dal trasferimento a Roma sino alla liberazione americana, la ragazzina compie il suo percorso di adolescente — via mai semplice di apertura al mondo — attraverso la violenza della guerra. Vede una delle sue amiche più care, Micol, sparire nel nulla dopo i rastrellamenti delle SS al ghetto; vede morte e fame, viltà e paura. Ma vede anche, a Centocelle, pulsare — come prima, come sempre — la vita nuda degli umili, indifesa e irriducibile: gli amori, le amicizie, le cure quotidiane di case affidate alla silenziosa tenacia e al coraggio delle donne, i ricordi d’infanzia, la nostalgia per i genitori e le sorelle rimaste in Sardegna, gli occhi azzurri e i riccioli neri di Antonio. Sino alle ultime pagine: l’atrocità della morte di un bambino ucciso da due tedeschi sbandati, il giorno prima dell’arrivo degli Alleati. Nella festa della liberazione, il 4 giugno, Ida vede annullata la felicità per la fine della guerra da un’infelicità personale, solo sua, che s’intreccia con il tradimento delle ragioni ideali della Resistenza. Ida volta le spalle alla festa di popolo, fugge dall’alba di un’era che nasce vecchia mentre promette di essere nuova. Si perde in una città che le diventa improvvisamente estranea. La Storie e le storie, dunque. Traccia talmente tante volte seguita dalla letteratura che intorno ad essa si potrebbe quasi definire un genere. Per «Dove finisce Roma», tra i tanti, il riferimento letterario forse più pertinente ci sembra «La piazza del Diamante» (1962) di Mercé Rodoreda. Ida come Natàlia, la protagonista del libro della scrittrice catalana, la donna che nella Barcellona della Repubblica e poi della guerra civile trova nella dimensione intima degli affetti un possibile percorso di resistenza. Si avverte il lascito di Rodoreda nell’attenzione al flusso minuto dell’esistenza e nello sguardo privilegiato rivolto all’universo femminile (Soriga dedica il libro «alle donne della mia famiglia»).
A dire, invece, di un secondo lascito, «La Storia» (1974) di Elsa Morante, siamo in qualche modo portati dall’autrice di «Dove finisce Roma». Portati, non solo perché il romanzo di Morante ha come teatro lo stesso luogo e si svolge in parte nello stesso arco temporale del romanzo di Soriga, ma anche perché le protagoniste dei due racconti hanno il medesimo nome: Ida ragazzina sarda (Soriga), Ida maestrina calabrese (Morante). Una scelta che Paola Soriga certamente non ha compiuto a caso. Ci interessa poco, di fronte ad un libro d’esordio, fare il confronto diretto con il testo di Elsa Morante (diciamo solo, per inciso, che, mentre il registro cronachistico de «La Storia» trova nella distanza del tono e della scrittura lo strumento principale per penetrare la dimensione tragica di esistenze perse nel tempo, il registro di Paola Soriga è invece connotato da un realismo che percorre vie molto più dirette verso i territori della commozione). Ci interessa di più dire che il richiamo di Paola Soriga ad un ramo della tradizione del Novecento italiano è positivo in sé, a fronte di un ambiente letterario contemporaneo sempre più popolato da narratori che scrivono (con esiti poverissimi) in una sorta di deserto della memoria. Tanto più positivo, poi, troviamo quel richiamo perché il «ramo Morante» è uno dei più alti del nostro Novecento. Che un’esordiente nata nel 1979 guardi sin lassù è un buon segno. Con un’avvertenza, però (doverosa, anche a costo di sembrare paternalistici): a quell’altezza l’impegno richiesto impone che non si ceda mai a niente dell’attuale «mainstream» editoriale. A quell’altezza lo sguardo arriva a ciò che Pier Paolo Pasolini aveva visto già nella «Meglio gioventù» (1953): «Signore, siamo soli, non ci chiami più/Per il nostro male non hai né collera né compassione/Niente da trenta secoli, niente è cambiato/si è unito il popolo e unito combatte/ma il nostro male è il male di ognuno di noi/e spartire male e bene lo sai solo Tu». Una preghiera, anche questa sottovoce, simile, nella comune radice di desolazione, al mormorio inudibile della Ida morantiana prima di finire in manicomio, quando la donna prende a lagnarsi «con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana». Ecco: la parola si spegne di fronte ad un male che non è mai solo storico. Dopo «La Storia», da Elsa Morante arriva il terribile immenso «Aracoeli» (1982). E dopo «Aracoeli», il silenzio, sino alla morte (1985). «Scrivo — diceva Elsa Morante — da una distanza che pareggia i vivi e i morti». Accettare questa altezza significa sapere che nessun gioco dei sentimenti — per quanto sapientemente costruito — ci può consolare.
Ieri tra Pavia e Barcellona. Oggi Seneghe e Argentiera
Paola Soriga è nata a Uta nel 1979. Ha studiato letteratura a Pavia, a Barcellona e a Roma, dove adesso vive e lavora nel settore dell’editoria. Insieme con il fratello, lo scrittore Flavio Soriga, cura il festival «Capudanne de sos poetas», che si svolge a Seneghe ormai da qualche anno ed è diventato, in ambito nazionale, uno dei più importanti appuntamenti dedicati alla poesia. Paola Soriga cura anche un altro dei festival letterari sardi, quello dell’Argentiera, che in estate ha come teatro il piccolo borgo minerario abbandonato a una trentina di chilometri da Sassari e che tiene insieme letteratura, musica e scritture per la televisione e per la radio.