di Francesco Giorgioni
Finalmente noi sardi possiamo sorridere tutti. Finalmente possiamo lasciarci alle spalle i danni causati dalle crisi industriali e dall’agonia senza speranza delle nostre campagne. Finalmente la disoccupazione smetterà di tormentare i giovani e resterà nelle nostre memorie solo come uno spiacevole ricordo. Perché? Perché è arrivato l’emiro e lascerà una scia di banconote fruscianti ai quattro angoli della Sardegna: cosa abbiamo più da temere? Il sindaco di Arzachena, componente della spedizione in Qatar guidata da Mario Monti, chiede alberghi, ville e nuovi investimenti per la Costa Smeralda di cui Al Thani è diventato proprietario pochi mesi fa. Ugo Cappellacci, anch’egli membro dalla missione araba, chiede attenzione per il resto della Sardegna, mentre il consigliere regionale del Pdl Mario Diana rivendica (da Cagliari) un centro per l’allevamento dei cavalli da localizzare nell’oristanese. Per i prossimi giorni si attendono le più fantasiose illazioni sull’entità del capitale che l’emiro intende puntare sul tavolo sardo e, soprattutto, le richieste più bizzarre e inspiegabili per il nuovo uomo della provvidenza, ormai rappresentabile con le sembianze di uno sportello bancomat. Più o meno le stesse scene viste tra gli anni settanta ed ottanta, ai tempi del mitico Master Plan da mille miliardi di lire proposto dall’Aga Khan ma mai realizzato. Da vent’anni lavoro in Costa Smeralda, tempo sufficiente per sviluppare anticorpi che immunizzino dal contagio da facili ed incontrollabili entusiasmi. Ogni volta che la Costa Smeralda cambia padrone, la prima mossa del nuovo arrivato mira immancabilmente a stabilire buoni rapporti con la classe politica e a creare golose aspettative nella comunità isolana: basta promettere di tutto e di più, senza peraltro assumere impegni precisi. In questi casi, è utile ripassare un po’ di storia recente sugli investitori sbarcati in Costa Smeralda per farsi un’idea di quanto le parole siano spesso rimaste tali. Dieci anni fa, il finanziere texano Tom Barrack rilevò le quote di maggioranza del Consorzio Costa Smeralda dalla multinazionale americana Starwood. Incontrò solennemente il Consiglio comunale di Arzachena per annunciare che, col suo avvento, ci sarebbero stati lavoro e opportunità per tutti. Poi si spinse sino a Cagliari per giurare all’allora presidente della Regione Mauro Pili le sue serie intenzioni. Venne pubblicamente illustrato un piano di investimenti da 400 milioni di euro nella sola Porto Cervo, venne manifestato interesse per l’acquisto delle miniere del Sulcis, si vagheggiarono mille altre possibili forme di collaborazione. Dieci anni dopo, il resoconto finale mostra che Barrack ha ceduto il timone subito dopo avere ottenuto alcune licenze edilizie per eseguire dei lavori di ristrutturazione dei quattro alberghi di punta del comprensorio. Il che gli ha permesso di rivendere ad un prezzo decisamente più alto rispetto a quello dell’acquisto. Aldilà di questa speculazione, l’ultimo decennio si è distinto per una costante perdita di appeal della Costa Smeralda tra le destinazioni turistiche e per una clamorosa mancanza di prospettive di sviluppo. La verità che la Sardegna ha difficoltà ad accettare è che nessun investitore, per facoltoso che sia, regala qualcosa. Come il bottegaio sotto la casa di ciascuno di noi, guarda (giustamente) al proprio interesse e, se occorre, cerca di piegare (meno giustamente) le regole al proprio tornaconto. Non aspettiamoci omaggi, insomma. Non sono omaggi, ad esempio, le beneficenze di magnati russi e orientali che, di tanto in tanto, infilano nella buca delle lettere di questo o quel Comune della Gallura generosi assegni per finanziare iniziative filantropiche: basta indagare un po’ per scoprire che i benefattori in questione hanno quasi sempre qualche favore da chiedere a quelle stesse amministrazioni, che siano sanatorie per abusi edilizi o permessi di altro genere. Se gli investimenti annunciati dall’Emiro dovessero tradursi in nuovo cemento da dividere tra villette e nuovi alberghi, la classe dirigente sarda dovrebbe rispondere presentando il bilancio di cinquant’anni di turismo. E cioè che nuove costruzioni sulle coste non offrono prospettive a lungo termine, ma solo ulteriore degrado ambientale senza un vero coinvolgimento dell’intero tessuto produttivo della Sardegna. L’Isola ha una necessità vitale di trasporti efficienti e i programmi in questo ambito sono da salutare con fiducia, certo, ma anche bisogno di vedere finalmente esposti in una vetrina di visibilità internazionale i frutti della sua terra e del suo artigianato. Però sono tempi di carestia, la gente chiede lavoro e speranza. Li vuole subito e nessuno, visti i tempi che corrono, penserà a piani di sviluppo integrati o opporrà troppe resistenze se l’investitore chiederà di rivedere certe regole. Al naufrago che rischia di annegare non interessa se la zattera cui si aggrappa dia garanzie di galleggiare per sempre, interessa che gli permetta di non essere inghiottito dal mare nell’immediato. Politica e opinione pubblica si adegueranno ai tempi. Guardando come sempre alle prossime elezioni più che alla prossima generazione.
Non rifiutare a priori il loro arrivo ma porre precisi e improrogabili paletti ai loro affari nonchè pretendere il lavoro nelle loro strutture per un’altissima percentuale di sardi (almeno 90%). In caso contrario, fuori dalle balle, non abbiamo bisogno di altri sfruttatori.
una cosa sarei d accordo ,che se vengono i arabi ,aiutandoci per il nostro commercio sardo valorisando i nostri prodotti,è cosi aiutando a farli conoscere in tt il mondo,cosi si crea il lavoro in sardegna,cn i nostri prodotti ,e il notro turismo ,che cinvidia tt il mondo .loro posson aiutarci cn le loro navi è aeri di linea,solo cosi posson aiutare la nostra terra..