di Claudia Zedda
Ho visto Tharros che avevo meno di 10 anni in gita con la scuola e rivederla ora, a 32 anni suonati mi ha fatto un certo effetto! La ricordavo gigantesca, con quei sentieri di pietra scura che tiravano verso l’infinito. Ci sono ancora le pietre, ci sono ancora i sentieri, c’è ancora lo splendido mare di Capo San Marco che dicono Morto perché pacifico quando il lembo opposto è in collera con il mondo, tutto però è a misura d’uomo e di donna: 22 anni fa non era Tharros ad essere casa dei giganti, solo io ad piccola come fata. Il biglietto per visitare l’antica città costa 7 euro e comprende anche la visita al museo di Cabras, peccato per l’escursione senza guida: per essere accompagnati da un esperto c’era da aspettare ma la giornata si stava facendo particolarmente incandescente. Lucifero (la perturbazione africana che non dimenticheremo tanto facilmente) si è fatto sentire tutto. Tharros è uno spettacolo, scivolata sul mare, ricca e opulenta. Chiudi gli occhi e non fatichi ad immaginarla ricca di vita e di gente che va e viene. Ho letto da qualche parte che è stata abitata a lungo e abbandonata a causa di incursioni saracene piuttosto violente. Gli abitanti decisero di spostarsi, smantellandola per costruire altrove una casa più sicura. Peccato penso io mentre voliamo verso Oristano, piccola e graziosa, tutta concentrata nel suo centro storico. Il caldo non me l’ha fatta apprezzare a dovere dato che presto siamo fuggiti alla scoperta della spiaggia di quarzo: is arutas. Il mare non è stato certo socievole, ma la spiaggia è un vero e proprio gioiello, morbida, colorata e pulita. I parcheggi sono a pagamento e per 2 ore di sosta abbiamo dato in cambio 3 euro al custode, ma ne è valsa la pena. Nel tardo pomeriggio un po’ pigramente ci siamo infilati in macchina diretti verso la nuova meta: Bono, un punto di partenza ideale per visitare il centro Sardegna. Prima di raggiungere la meta abbiamo effettuato una piacevole deviazione per visitare la chiesa di San Pietro a Zuri. Si tratta di una piccolissima frazione di Ghilarza facilmente raggiungibile seguendo le indicazioni stradali che trovi sulla 131: la chiesa è sostanzialmente il centro del paese che si affaccia tutto sul favoloso lago Omodeo. Per questo le due signore alle quali abbiamo chiesto indicazioni per la chiesa hanno sorriso: è davvero impossibile non trovarla. La conoscevo per nome grazie al tanto amato e temuto esame di storia dell’arte che mi ha regalato una panoramica delle più belle chiese isolane e ricordavo con precisione la sua particolarità: fu smontata pietra per pietra e rimontata a regola d’arte. Ti immagini la fatica? Fin dal 1291 si trovava in quella vallata che negli anni venti del novecento divenne letto dell’Omodeo, artificiale e pigro. Per non perdere insieme al villaggio anche la chiesa si decise di smontarla (letteralmente) e rimontarla poco più in altro. E’ in questo modo che gran parte della foresta pietrificata sarda è scomparsa, ma questa è un’altra storia. Per questo tutte le pietre che la compongono sono segnate e numerate: in questo modo si è potuto ricostruirla con precisione sorprendente. Ci sono inoltre due fregi che non possono passare inosservati: il primo si trova nell’architrave e raffigura Sardina de Lacon, nobildonna mamma di Mariano d’Arborea, inginocchiata: fu lei a volere la costruzione della chiesa. Ho cercato qualche informazioni su questa donna che mi ha affascinato fin da subito, ma i libri di storia preferiscono ricordare le vicende dei maschietti: io comunque non mollo (se hai info su Sardinia contattami!). Il secondo fregio si trova nel lato destro della chiesa e raffigura uomini e donne presi per mano: secondo alcuni si tratta della prima rappresentazione del ballo tondo che un tempo veniva praticato anche intorno alle chieste. Altri preferiscono definire il fregio come la rappresentazione dei pellegrini in viaggio verso la chiesa, ma ti dirò, la prima ipotesi è tanto affascinante e condivisibile che non posso proprio rifiutarla. Quando mi sono piazzata davanti alla chiesetta romanico lombarda con la mia Canon al collo non ho pensato ai suoi fregi e alle sue leggende: al tramonto quella trachite si accende di vita e il contrasto con il cielo azzurro di Sardegna gioca con le emozioni di chi sta davanti a quel gustoso schermo gigante che proietta meraviglia. La chiesa al suo interno è meno semplice di altre: “Possiamo visitare la chiesa?” ho chiesto a un’anziana che riordinava la sala dopo la messa. Maria mi è stata simpatica fin da subito “Perché no?” mi ha risposto sbrigativa e mi ha ricordato mia nonna. “Ma lo sai che in questa chiesa c’è morto pure un uomo con suo figlio?” mi ha detto avvicinandosi sorniona con il suo golfino azzurro in lana, (in pieno agosto!!! assurdità degli anziani). “Davvero? Ma quando?”, “Eh… non ieri, nel 1400, se vuoi ti racconto la storia”. Ma stiamo scherzando? Potevo perdermi questa occasione? Abbiamo aspettato che il prete si allontanasse, pare che non voglia che la leggenda si racconti all’interno della chiesa, e Maria ci ha fatto notare con reverenza che intenerisce il cuore, la statua del Santo e qualche chiazza nera. Poco più tardi, seduti all’esterno della chiesa e baciati da un tramonto sanguinolento e appiccicoso Maria ci ha raccontato di Valore de Ligia e di suo figlio Bernardo, l’uno ucciso secondo la storia-leggenda per il suo tradimento, l’altro per le colpe del padre. Inseguiti dai Cavalieri di Arborea i due si rifugiarono all’interno della chiesa certi di poter godere del diritto di asilo. Non fu così: il 17 luglio del 1416 de Ligia e suo figlio vennero uccisi in quella che oggi è abside e che un tempo era sagrestia. La storia è testimoniata da alcune chiazze nere che ancora oggi si possono osservare e da alcune scalpellate che hanno cancellato, così ci ha raccontato quella deliziosa vecchietta, il segno della mano insanguinata dell’uomo che dopo la prima coltellata cercò di risollevarsi, inutilmente a quanto pare. Ho salutato silenziosamente l’Omodeo con la promessa di far ritorno a Zuri per visitare quel che resta della foresta pietrificata, mi sono sbaciucchiatta quella vecchietta che è stata meglio di una guida accreditata e tra una foto e l’altra siamo arrivati a Bono a sole ormai tramontato.