di Sergio Portas (nella foto MICHELA MASIA)
Quando si è giovani e innamorati si tende a fare promesse che vanno spesso al di là dell’umano potere: per te…ruberei una stella, s’osava dire ai tempi miei. E se qualcuno una stella te la regala veramente, te la spicca dal nastro appeso davanti alla chiesa Santa Maria Assunta di Oristano con un tocco di spada, mentre l’urlo della folla assiepata accompagna il folle galoppo della maschera di legno scuro? Quella de su Componidori di S.Giovanni Battista. Nel 2003, mi dice Michela Masia il mio attuale fidanzato era Gabriele Pinna, Componidori per il gremio dei contadini, quelli che corrono alla stella di domenica, con le frange colorate di rosso scarlatto. E le rosette che ornano i cavalli, bianche e rosse pure loro. Me l’ha regalata davvero la stella, quella che ha infilzato con "su stoccu". Michela è sorella di Caterina e Patrizia che con me cantano nel coro stabile sardo di Pino Martini, a Milano. E’ così che il caso si diverte a mettere insieme le persone, con percorsi dei fili di ragno di calviniana memoria, assemblando conoscenze e frequentazioni che paiono uscite da strade di fiabe. E alle fate occorre ancora credere se si vuole gustare nel suo intimo sapore quel Carnevale che sa di sudore equino che si svolge in Oristano al primo sentore di primavera. Aurei Stagni erano questi già quando la stirpe tutta d’Arborea osò sognare una nazione sarda unita sotto lo stemma dell’albero deradicato. Ma venne l’Aragonese ad imporre il suo di stemma alle genti di Sardegna, anche se dovette riconoscere che la Legge imperante sul giudicato verde era di grande spessore etico e giuridico: e la "Carta de Logu" non fu toccata, per altri quattro secoli doveva governare lo stare insieme dei sardi. Fu in quel periodo che, in tutta probabilità, si cominciò a giostrare la Sartiglia (attorno al 1450). Giostra equestre che era molto popolare in tutte le regioni spagnole, dalla Castiglia all’Andalusia. Qui ad Oristano sta avendo una vera e propria rifioritura, soprattutto perché sembra abbia trovato la magica formula di coinvolgere, nel suo vario formale dispiegarsi, la stragrande maggioranza della gente del luogo. Verrebbe da dire del popolo se non fosse che la parola viene così abusata da certi mestatori che vivono esclusivamente di politica che preferiamo lasciarla lì a decantare, in attesa di tempi più sereni. Al di là della festa policroma che mette in campo ultimamente ben 120 cavalieri, divisi in pariglie di tre, vi è tutto un lavorio di mesi e mesi, che impegna i gremi contadini e falegnami a selezionare "maiores" e figure di minore prestigio, tutte indispensabili perché la festa riesca, perché il rito si compia. Rito di primavera, benedetta da quella "pippia ‘e maju" fatta di quindicimila violette che la compongono e che il cavaliere dal nero cilindro posto a capo di un velo a ricami di seta, la maschera che si anima solo se il sole la bacia, agita a braccia distesa come fosse aspersorio. Inondando di profumi sottili la folla che preme il destriero. Michela in questa tornata del 2009, nel rito della vestizione, prima di lei solo sa "massai manna". Vestita del costume oristanese, coi cammei che si specchiano l’uno con l’altro sotto il collo stretto dal nastro di seta nero. Tre bottoni di filigrana sulla parte sinistra del velo sontuoso. I ricami dorati che spiccano sul rosso del grembiule, una collana di corallo che ha rubato il vermiglio dei grani alle triglie del golfo. Mi dice, ridendo, prima che inizi la sfilata che porta i paramenti che comporranno la figura de su Componidori, di fotografare solo lei, che è la più carina, e il bianco dei denti vince la sfida dei bottoni di perla. Per entrare dove il rito si compie,la casa del gremio (in grembo a S. Giovanni) ci vuole un invito speciale. In realtà ci sono più inviti che "gente importante", ma anche i generali dei carabinieri, se arrivano tardi, gli tocca accomodarsi nelle file di dietro. E ora vi debbo raccontare una del tutto speciale celebrazione. C’è una tavola di legno (sa mesitta) dove un baldo uomo dai brizzolati capelli (per la cronaca Andrea Brai) si siede sopra una sedia dal rigido schienale, che lo aiuta a tenere un atteggiamento di austerità rigorosa, composta. Le due "massaieddas", riccamente vestite d’oro e di rubino, sotto l’occhiuta regia delle "grandi", cuciono letteralmente addosso al cavaliere seduto i paramenti regali che dovranno contenerlo per tutta la durata della festa. Cuciono persino le fasce bianche sotto la gola, quelle che, per un attimo, lo fanno sembrare un uovo di pasqua vivente. E viene da pensare che persino le guglie dell’ago siano formalizzate, e il numero dei punti, che se no la fortuna, così eterea e restia, possa, dio non voglia, voltare la testa. E darci un’annata di scarso frumento, di spighe svuotate. Il suono dei tamburini a ritmo e intensità misurata, sottolinea l’avanzare del miracolo che si va compiendo. Insieme al lamento delle launeddas. Un essere vivo, che ogni tanto alza il bicchiere della vernaccia dorata a risposta degli evviva del pubblico, una volta che la maschera di legno di pero viene fissata al suo volto, prende movenze particolari, che trascendono l’umano conosciuto. Il velo poi gioca coi la certezza del genere: è una sposa quella che appare per un attimo, quando ogni piega viene opportunamente atteggiata. Ma il cappello a cilindro ristabilisce, non del tutto, che di un Componidori al maschile si debba trattare. Anche se il dubbio non si dissolve completamente. E ora zitti tutti, i maledetti telefonini coi flash che rimangano muti, che deve entrare il cavallo, che non deve spaventarsi. La maschera sacra sale sull’animale agghindato di rosette del colore del gremio, impugna lo scettro di primule viola e benedice gli astanti. Si avvia verso il portale che lo immetterà all’aperto, verso la corsa alla stella, padrone di consegnare le spade ai cavalieri che aspirano a cimentarsi col fato. Signore di decidere chi debba correre o no. E tutto si colorerà di significato, ogni cosa riceverà senso e spessore, che le cose degli uomini, spesso, si riverberano in cielo. Ammesso che la forma non muti, che il rito si compia con le regole stabilite dai padri. A tramandare usanze che hanno retto per secoli lo stare insieme della gente con l’equilibrio necessario a che le generazioni si succedano, ritmicamente come l’incedere delle stagioni. Noi gente del novecento, anzi dell’anno mille e più di mille, che non abitiamo più in un ambito di paese a coesione sociale forgiato ad armatura d’acciaio, di tutto questo abbiamo perso memoria. Ma ne conserviamo nostalgia, pronti a farci affascinare nuovamente, qualora un avvenimento di senso ci risvegli questa possibilità di una vita più umana, di un tempo che fu. Michela oggi gestisce una "palestra a ginnastica dolce" in centro a Oristano, l’ha chiamata "Shangrilà", la diresti un giovane imprenditrice scafata. Ma quando il cavallo nell’uscire dal portale ricurvo fa uno scarto improvviso e su Componidori quasi tocca la volta, mi lancia un’occhiata corrusca e dice solo:sfortuna!E pare una jana di trecento anni fa. Ma due ore più tardi un cavallo stramazza col cuore scoppiato e poco dopo uno spettatore incautamente si fa travolgere da una pariglia a galoppo lanciato. Coincidenze per le genti di adesso. Io stesso non riesco a definirle altrimenti. Ma è diverso per chi la Sartig
lia la vive di dentro e sa cogliere i segni che prevedono il mutare del fato in tragedia. In questa Sardegna che non finisce di stupire fin quando il sole invernale riesce ad avere la meglio sulle nubi ancor gonfie di pioggia, che nel pomeriggio si riprenderanno il proscenio, facendo ombra ai cavalieri d’Oristano, le maschere impassibili, rigate da lacrime di cielo.