L’esistenza dell’antico paese di Bannari (Villa Verde), ipotizzando una continuità con un suo nucleo primitivo montano, si spinge ben oltre i duemila anni convissuti con il cristianesimo. Almeno fino ad altri 1500 anni avanti Cristo. L’ossidiana, con la sua realtà storica trascina la piccola storia della nostra gente. Pau e Bannari, “per circa mille anni” (G. Lilliu, C. Puxeddu) furono l’epicentro di questo rilevante periodo di civiltà in Sardegna.
Pensando l’esistenza storico-geografica di questo paese come un grande ponte, possiamo immaginare come prima campata quella che va, convenzionalmente, da oggi fino all’imperatore Marcus Salvius Otho (amico di Nerone e compagno delle sue dissolutezze), perché di lui, anni fa, è stata trovata una moneta lungo i sentieri di Villa Verde (Bannari); segno che la romanizzazione – forse anche in relazione alla Colonia Iulia Augusta Uselis, fondata in età tardo-repubblicana attorno al secondo secolo a.C. – ha già raggiunto il comprensorio di Bannari. Siamo al 69 dopo Cristo.
La seconda campata possiamo immaginarla dunque a partire dal periodo romano, senza soluzione di continuità, fino all’era dell’ossidiana, sa pedra crob?a del monte Arci, conosciuta e diffusa già dal quarto millennio a.C. In Sardegna l’ossidiana, una roccia amorfa detta anche vetro vulcanico, si trova esclusivamente nel monte Arci, complesso eruttivo risalente al ciclo vulcanico tardo-pliocenico.
La realtà dell’ossidiana – quella che lo storico naturalista Plinio nel suo “Naturalis historia” chiamava “lapis obsianus” – che coinvolge e interessa largamente il nostro territorio, ci obbliga a guardare con attenzione a questa seconda campata, che si perde nei tempi più remoti, fino al periodo nuragico (1800-238 a.C.), addirittura fino al limitare del Neolitico (6000-2800 a.C.), quando già “l’intero territorio regionale era abitato“ dai prenuragici (C. Lugliè: “L’ossidiana del monte Arci”). In altre parole, attorno all’ossidiana si costruisce un contesto dal quale non si possono estrapolare, cronologicamente, i nuclei abitati da essa coinvolti.
L’ossidiana è stata studiata nella sua composizione chimica, che varia a seconda del luogo di provenienza. Esaminando il dosaggio degli elementi compositivi, bario, zirconio, cesio, rubidio e boro, si riesce a individuare i diversi giacimenti di produzione. L’ossidiana sarda, studiata dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Cagliari, è più ricca di bario e tre volte più ricca di rubidio rispetto alle ossidiane di Lipari, Pantelleria e Palmarola, che sono gli altri giacimenti di ossidiana presenti in Italia. Tali peculiari caratteristiche consentono di conoscere perfino quali dei versanti del monte Arci fossero sfruttati nelle diverse epoche e quali direzioni prendessero le differenti varietà di ossidiana nella loro distribuzione insulare ed extrainsulare: l’ossidiana dalla composizione chimica riscontrata in quella del monte Arci, è stata trovata in Toscana, nel Lazio e nella Francia meridionale, esportata, ovviamente, mediante contatti e scambi tra genti neolitiche che utilizzarono le famose navicelle o il ponte terrestre rappresentato dal promontorio sardo-corso all’arcipelago toscano.
La fittissima concentrazione dei centri di raccolta e di officine per la sua lavorazione attorno al monte Arci, dimostra in modo inequivocabile, che “tutti gli abitanti della zona furono attivissimi esportatori dell’oro nero per un lunghissimo periodo di tempo, sicuramente per oltre mille anni”, dal IV millennio a.C. fino all’arrivo dei metalli (archeologo Cornelio Puxeddu: “Diocesi di Ales-Usellus-Terralba”). L’accentuata densità demografica del comprensorio di Bannari, documentata dal numero dei nuraghi per chilometro quadrato, la più alta della zona: 0,576/kmq (Morgongiori 5 nuraghi 0,110 per kmq; Pau 3 nuraghi 0,213 per kmq; Usellus 12 nuraghi 0,341 per kmq), ci indica contestualmente un’attività economica diffusa e una certa rete logistica indispensabile per l’estrazione, il trasporto e lo scambio dell’ossidiana, vero “oro nero” di quei remoti antenati nostri, i quali, migliaia di anni fa, spesso con mezzi inadeguati e tantissimi pericoli, affrontavano innumerevoli insidie per commercializzare il prezioso materiale, estratto con arnesi rudimentali da “minatori” specializzati. Osservando con attenzione, è facile constatare come i nuraghi di Bannari siano piazzati in posizione strategica, come a corona su un vasto orizzonte, per monitorare, sorvegliare e garantire la sicurezza delle cose e delle persone nella valle in una comunità unitaria e “laboriosa” (come il Casalis definisce ancora, nel 1831, la popolazione bannarese). Da Nurax’e Mãu, a su Brunk’e s’Omu, al Nurax’e Trùttiris, a Grégui (G iniziale di Genova), sembra di vedere come altrettanti ciclopici “castiadò-ris” (vigilantes) che controllano con occhio vigile tutta l’attività del vasto comprensorio pedemontano.
Attorno ai nuraghi gravitavano infatti tante piccole comunità vive e vitali: uomini, donne, bambini, giovani, nonni, parenti e le preistoriche matrioske dalle quali, di generazione in generazione, sono originate le nostre vite… Il Casalis nel suo “Dizionario” ci riferisce di 17 nuraghi; l’archeologo Puxeddu ne calcola una decina. Ipotizzando una media minimale di venti-trenta persone per nuraghe (necessarie, oltretutto, per spiegare l’edificazione di edifici tanto imponenti), arriviamo a circa 450-500 individui. Forse, la valle di Bannari era allora molto più abitata di oggi.
grazie Massimiliano….è il mio paese !!!
Cara compaesana Robertina, se ti interessa, su facebook potrai trovare altre puntate interessanti sul nostro caro paesello di Bàini, piccolo ma con una storia millenaria di tutto rispetto.