di Sergio Portas
Una battaglia di bandiere si preannuncia, quando si tratterà di proclamare l’avvenuta indipendenza sarda. Hai voglia dire che quella dei “quattro mori” è stendardo aragonese che rimanda a quattrocento anni d’oppressione in salsa spagnola o giù di lì, che i catalani dicono di sé essere altro da quelli di Madrid. Gli è che oramai ci è entrata nel cuore: è simbolo autonomo e agisce per suo conto, al di là d’ogni calcolo di sapere politico. Qui a Peschiera Borromeo, al circolo “Nuova Sardegna”, facente gli onori di casa Elena Bacchitta da Dorgali, Katia Rivano se ne viene da Capoterra di Cagliari a mostrare i suoi trentatré cuscini addobbati col simbolo dei mori, e in più ci mette anche tredici magliette appese a fare scenografia più luccicante. Sono quattro o tre e anche meno i mori che vengono inquartati tra croci di San Giorgio e altri ammennicoli araldici, e l’effetto comunque lascia senza fiato per la fantasia sottesa a quanti li abbiano scelti per sventolare a raccolta lo straccio sulla picca, sull’asta. Ci fanno assistere anche a una storia corredata da “slide” proiettate dal solito computer, della bandiera sarda. Con le leggende che riportano a Pietro quarto d’Aragona e le teste mozzate dei re mori che si volevano rendere sovrani dell’ultimo pezzo di Spagna che ancora non controllavano. Mentre a Cordova e Siviglia già tenevano corte bandita. E pare che da allora lo stendardo seguisse anche quei ragazzi di Sardegna costretti a fare le battaglie del Re. Anche se non era nato né a Cagliari e Sassari e Oristano. E pare sempre che questo “Tercio de Cerdegna” si comportasse con la dovuta dose di audacia, che aiuta a salvare la pelle, anche in quel di Lepanto, quando la cattolicità vaticanense riuscì a ributtare a mare il predominio del Turco che aveva fatto sentire il rombo dei suoi tamburi, oltre che quello ben più minaccioso dei cannoni, alle porte di Vienna. Con un balzo che supera il mezzo millennio , la bandiera circondata dal lutto dei caduti, fu fatta sventolare sul Carso da quelli della “Sassari”, brigata che raccolse la meglio gioventù barbaricina e campidanese tutta. E con essa Bellieni e Lussu fecero vedere a Giolitti che i sardi potevano votare i loro delegati, con una campagna elettorale senza il becco di un quattrino, senza dover ricorrere ai soliti “liberali”, devoti al potere di Roma. Ci volle il fascismo che aborriva ogni colore che non fosse il nero delle camicie, e ogni simbolo che non rimandasse alla Città Eterna, perchè anche i sardi si mettessero in riga e, volenti o nolenti, rinunciassero a cantare con la loro lingua le gare dei poeti che impreziosivano le piazze dei paesi. E quei venti anni di oblio, sfociati in una guerra che i sardi combatterono con gli unni di Germania, li riconsegnò all’Italica storia, con tutti i retroscena che sapete. Ma la bandiera sorprendentemente risorse dalle ceneri e si mise a sventolare nei raduni più strani, alle partite di calcio di un Cagliari miracolato dai gol di un transfuga padano, il Riva Giggi nazionale, ai raduni papali di ragazzi provenienti dalle mille città del mondo tutto, ai primi maggi assolati in piazza san Giovanni: i quattro mori con la bandana sugli occhi o sulla fronte, talvolta girati a destra e talvolta a sinistra, tutti indicanti che i sardi sono qui, non sono morti mai. E fanno sventolare la bandiera, come fosse aquilone di Kabul. Katia Rivano stilista casteddaia ha intrapreso un cammino che la porterà a lavorare sul tema per una vita intera. Se ha voglia di correre dietro ai mori che sono sulle bandiere e sugli stemmi dei paesi. Uno è persino sul quello del papa attualmente assiso sul trono petrino, e ha in testa una corona. Sembra voglia rappresentare un tal prete d’Etiopia che venne in Baviera a predicare nel millequattrocento o giù di lì. Ma per restare a casa nostra basta recarsi a Serramanna o ad Ardauli e persino a Perdasdefogu (la provincia di Carbonia-Iglesias i sardi d’oggi l’hanno appena cancellata) per trovare mori dappertutto. E di quella battaglia di bandiere che vi dicevo all’inizio? Anche Katia la prefigura, forse inconsciamente, che in uno dei suoi cuscini si riproduce l’albero verde con le radici fuori: quello del giudicato di Arborea. Di Mariano quarto e della sua figliola Eleonora, che andò sposa ad un Doria, parente dell’ammiraglio di Lepanto che sbaragliò la flotta del sultano d’Istàmbul. Ha il profumo forte della “Carta de Logu” che per centinaia di anni fece dei sardi una nazione comune, quasi uno stato di diritto diremo oggi con prosa politichese. Già alcuni partiti che si vanno strutturando dietro la parola d’ordine sacra: indipendenza, l’usano a simbolo di rinascita per la nazione tutta. La parola che veicola ha suono di sirena a cui neppure quel tale Ulisse riuscì a tenere testa, dovette farsi legare all’albero maestro per non buttarle le braccia al collo in mare, ma il simbolo dei quattro mori è potente di suo. Cosa volete che vi dica, persino il vostro cronista non riesce a sottrarsi alla magia che emana. Mi sa che ci toccherà adottare un altro referendum: quale bandiera per la nuova nazione sarda indipendente al centro del Mediterraneo mar? Mettere la croce sull’albero verde deradicato o sulle facce dei mori in campo bianco.
Grazie Max, sempre gentile e al servizio dei sardi e della Sardegna
Grazie a tutti coloro che con le collaborazioni attive, mantengono in vita il progetto TOTTUS IN PARI.