di Omar Onnis
Festeggiare il lavoro di questi tempi suona come una campana rotta. A meno che non lo si intenda nel senso che si “fa la festa” al lavoro, lo si fa fuori una volta per tutte e amen. Il modello economico dominante continua a mostrare i suoi limiti strutturali e le sue pecche evidenti anche nei paesi ricchi e prosperi del pianeta. Una delle caratteristiche di questa fase è proprio l’obsolescenza dell’idea stessa di lavoro così come impostasi nella contemporaneità e anche, di conseguenza, dei costrutti ideologici che lo riguardano, nonché delle narrazioni che veicolano questi ultimi. In Sardegna a questa considerazione se ne aggiunge un’altra. Dalle nostre parti è sempre stato difficile celebrare compiutamente il primo maggio secondo i rituali e i significati che alla ricorrenza si danno nel mondo intero. C’è Santu Efis di mezzo e tutte le attenzioni mediatiche sono rivolte compulsivamente alla festa del santo martire, in un’enfasi retorica straordinaria, pervasiva e dilatata ai giorni precedenti e a quelli successivi all’evento principale. Mai stato simpatico, Santu Efis. Non per colpa sua, poverino. Se è vero quel che si dice sul suo conto, non si può che provare pena per la sua sorte. Però la festa che gli si è dedicata ha tutti i contorni dello strumento di deprivazione mnemonica e di debilitazione politica, allo stesso modo di tanta parte degli elementi costitutivi del nostro mito identitario.
Riflettendoci dopo le polemiche sul 25 aprile e dopo il vergognoso trattamento riservato da istituzioni e mass media a Sa Die de sa Sardigna, salta agli occhi quanto sia comodo per chi gestisce e trae vantaggio dallo status quo sollecitare entusiasmi colletivi su una celebrazione che non ha nulla di problematico, che non mette in discussione alcun assetto di potere, che non serve a riappropriarci in alcun modo di noi stessi, se non in termini folkloristici, né a sostenere lo sforzo di emancipazione di cui abbiamo estrema necessità storica. Provvidenziale, si direbbe, questo Santu Efis. Cade a pennello, come un bel colpo di spugna riparatore, nel giorno successivo alla diffusione delle prime conclusioni di uno studio condotto dalle università di Cagliari e di Edimburgo sui processi e sugli elementi di identificazione dei sardi. Da tale studio – pure impostato in termini piuttosto tendenziosi (come segnalato a suo tempo) – emerge che la maggior parte dei sardi si considera fondamentalmente sarda ed anche che la percentuale di aspiranti all’indipendenza della Sardegna o a una forma di autodeterminazione è ugualmente prevalente sul resto. Niente che la classe dominante sarda e le sue propaggini politiche non abbiano subodorato da tempo. Le uscite di un Cappellacci con tanto di berritta in testa e appelli alla nazione sarda non erano il frutto di un colpo di sole. Quella gente conosce il suo pubblico e sa dove andare a incidere in termini comunicativi. Tanto poi con la complicità dell’apparato dei mass media si può fare comunque quel che si vuole, al riparo da critiche troppo severe e obblighi di dare spiegazioni credibili. Così – non si offendano quelli che ci credono – di considerare questa ricorrenza niente meno che la vera festa dei sardi non mi pare proprio il caso. La festa dei sardi era un’altra, il 28 aprile. I tentativi di ridimensionarla a celebrazione – questa sì – folkloristica, a derubricare l’evento rievocato a episodio marginale e provinciale (come ha fatto l’Unione Sarda) o addirittura – più drasticamente – a rimuoverla totalmente (come ha fatto La Nuova Sardegna) sono esempi gravi e estremamente significativi della cappa di controllo cui siamo sottoposti. Questo primo maggio dunque dovremmo pensare a chi lavora, produce beni materiali e immateriali, produce senso, relazioni, bellezza. E a chi il lavoro non lo ha o lo ha perso, a chi non riesce a trovare una prospettiva concreta soddisfacente nella vita, alle famiglie in difficoltà, ai nodi economici, politici e culturali che vanno sciolti, per venire a capo della nostra crisi perenne. Santu Efis avrà pazienza.