di Maria Adelasia Divona
Il 23 aprile si è festeggiata la Giornata Mondiale del Libro: per l’occasione in via Gemona a Udine si è tenuta la terza edizione Ri-leggere la Via, un incontro che si rinnova per riscoprire gli spazi pubblici e privati della via e per rivivere la città secondo la sua vocazione naturale: quella di luogo di socialità, di scambio, di relazione. L’evento ha visto l’apertura straordinaria del ristorante sardo La Nicchia, gestito da Massimo (vitzichesu doc) e Silvia (friulana di San Daniele). Il programma prevedeva cena sarda accompagnata dalla voce del poeta friulano Antonio De Lucia che leggeva brani tratti da autori sardi.
La Nicchia è un posto incantevole: è piccola, come dice il nome, e questo è un bene per i suoi frequentatori, che vengono coccolati ad uno ad uno da Massimo e Silvia. Io ci vado perché mi sento a casa, e mi porto i miei amici friulani. Alla serata sono andata col mio amico Enore, un carnico con cui condivido la passione per la lettura, e che mi ha introdotto agli scrittori sardi. Al mio arrivo ho trovato Agostino Atzori e Roberta, soci del Circolo Montanaru, e grazie alla lungimiranza di Silvia che ha messo il nostro tavolo vicino al loro abbiamo fatto un’unica tavolata che ci ha permesso di passare una bellissima serata.
Il poeta De Lucia è un personaggio veramente caratteristico, grande lettore e grande cantore di storie: ha iniziato anticipando la sua idea dei sardi con una storia su Amedeo Nazari, per sottolineare come la natura ci abbia dotato dei caratteri della bellezza che contrasta con la durezza della nostra lingua “scolpita nella pietra”.
L’antipasto di carpaccio di tonno di Carloforte al lentischio e di polpo con sedano e bottarga è stato anticipato dalla lettura di una novella di Grazia Deledda “Il pane casalingo”: vi si narra come “sa mere”, invece di lasciare il gravoso compito alle serve, gelosa della sua prerogativa ancestrale, si dedica alla preparazione del pane con una ritualità di gesti “quasi sacerdotale” che viene suggellata dal segno di croce sul mucchio di farina. Mi sono ricordata di quel gesto, che vedevo anche io quando, piccolissima, a Bono nella casa di mia madre, assistevo alla preparazione del pane carasau e mia zia era un continuo segnarsi, lei e il pane. De Lucia è veramente bravo: si vede che è proprio entrato in sintonia con la nostra terra, se non fosse che i suoi commenti e la gestualità con cui accompagna la lettura sono intercalati da colpi di “Dio bon” che mi fanno pensare che no, non sono a casa, ma sono ancora in Friuli!
Mentre degustiamo il secondo antipasto – culurgiones croccanti (il culurgione fritto è davvero una scoperta, bravo Massimo!) in crema di fave e pecorino accompagnato da pecorini al mirto, al timo e una ricotta mustia in agrodolce – De Lucia attinge di nuovo al libro di Neria De Giovanni “A tavola con Grazia. Cibo e cucina nell’opera di Grazia Deledda” per raccontare del polpo in agliata: e nel silenzio dell’attesa mi scappa dal cuore un sospirante “Che buono!” che scatena l’ilarità dei friulani presenti. Non possono capire, loro: non capirebbero quel polpo sbattuto e fritto a crudo, che resta duro alla masticazione, e quella salsa all’aglio di cui mal tollererebbero la persistenza…per questo Silvia mi dice che non è il caso di proporlo al ristorante. Tristemente mi rassegno, e lo inserisco nella lista degli “have to” di quest’estate.
Non ricordo il titolo della lettura che ha accompagnato il primo (malloreddus con asparagi verdi sardi, ricotta mustia e bottarga…): mi sono persa nelle parole, perché “dalle parole escono fuori le cose” e ho visto quelle spighette di forasacco che da bambini lanciavamo e restavano attaccate, e a contarle ti dicevano quanti figli avresti avuto. Anche i friulani giocavano con le spighette…ma loro non contavano i figli! Anche qui colpi di “Dio bon”, ma alla fin fine, perché concentrarsi sulle differenze quando le spighette, (ma ho scoperto anche le Aganas, che sono le cugine friulane delle Janas!), ci rendono così simili?
Prima del secondo (fagottino di carasau con bocconcini di agnello sardo al finocchietto), un momento molto toccante per noi (4 in sala) disterraus: Agostino Atzori, che io adoro per il suo parlare per metafore, ha letto una sua poesia inedita “Sardigna, terra mia”. L’ha recitata in limba, ricorrendo all’italiano per ogni strofa, affinché anche i Friulani capissero. Io, in realtà, ho capito ben poco, ci ho riflettuto molto dopo, quando Agostino mi ha lasciato il testo. Più che sulla trasposizione italica ero concentrata sui suoni, tanto di versi dae sa limba della mia infanzia: il suo “in dongia logu” e il mio ”in donzi logu”, il suo “su celu” e il mio “su chelu”… Ma questa terra “istimada odiada aresti abruxada, si cada imbisiada e arrecatada”, è terra sua, ma anche mia. Molto malinconicamente è di noi disterraus. I Friulani hanno capito. “Sun paraulis come piedris”, ha commentato De Lucia.
Il colpo di grazia, alla fine: seada e semifreddo al mirto, con tutte le piccole bacche intorno (perché si, la pianta di mirto ce la siamo portati dietro anche in Friuli!) e la lettura di un brano de L’Accabbadora di Michela Murgia sul significato etimologico di gueffus e pirichittus. Insomma, Massimo e Silvia sono stati eccezionali come sempre (non per niente è il più recensito tra i ristoranti di Udine su TripAdvisor): la serata molto ben organizzata e i piatti sublimi (per non parlare del cagnulari consigliato da Silvia!). Ma la morale della storia è: facile scacciare la malinconia in una serata come questa, difficile non pensare a cosa abbiamo lasciato insieme alle nostre radici.
Un viaggio emozionante da fare con il fiato sospeso tra ricordi di odori, colori e gesti che ti stringono il cuore all’idea di essere contemporaneamente frutto e seme di una terra dura come i suoni della sua lingua…..che delizia il cagnulari.
Da nativa logudorese non posso che ammorbidire ogni parola e portare con me in donzi logu su chelu de sa Sardigna!