LA DISOCCUPAZIONE, IL RUOLO DELL'UNIVERSITA' E LA MENTALITA' DEI BUROCRATI: IN SARDEGNA NON ESISTE LA CULTURA D'IMPRESA


di Pier Ausonio Bianco – Sardi News

I dati della disoccupazione in Sardegna stanno diventando sempre più preoccupanti (circa 13%). Ancora più preoccupanti sono i dati della disoccupazione giovanile (circa 45), accompagnati dal basso livello di istruzione dei sardi, peggiore dei valori nazionali per quanto riguarda il numero dei laureati, dei maturati e di coloro che hanno una qualifica professionale. Che fare? L’economista cerca di incrociare dati, alla ricerca di correlazioni che non siano solo casuali, per evitare l’errore post haec – propter haec. Il sociologo cerca di fornire quadri interpretativi in base alle più accreditate teorie accademiche e propone soluzioni in base alle proprie idiosincrasie politiche. Sono però valutazioni fatte su grandi numeri, basate su indicatori che colgono solo alcuni aspetti della complessità del mondo del lavoro e della produzione di ricchezza. (Hayek: “quanto poco le statistiche possano contribuire alla spiegazione di fenomeni complessi”). Se si osservassero i reali individui all’opera, forse si scoprirebbe qualche caratteristica non rilevata dagli indicatori, ma che ha un potente effetto sugli scarsi risultati economici della Sardegna. Per lavoro, visito parecchie aziende, in Italia ma anche in Sardegna. Mi capita quindi di incontrare lavoratori sardi e magari di chiedere anche ai responsabili dell’azienda che cosa pensino dei sardi come lavoratori. Quando poi confronto questi giudizi con quelli sui sardi che lavorano in Sardegna, mi sembra di avere a che fare con due popolazioni distinte, con tratti caratteriali apparentemente simili che però nel continente si declinano, ad esempio, come orgoglio nel portare avanti il lavoro fino ad un risultato, mentre in Sardegna è sovente solo testardaggine senza frutto.
Senza tanti giri di parole, vorrei che ci si interrogasse sulla temperie sociale che forma il carattere e la scadente qualità, almeno dal punto di vista professionale, di tanti giovani sardi, e di conseguenza sull’imprenditoria sarda. La prima caratteristica che mi colpisce in tanti sardi è l’elevata concezione di sé, strettamente legata all’enfasi sul titolo di studio: “Come, sono laureato e non trovo lavoro?”. Purtroppo, è piuttosto frequente vedere persone che non troverebbero un posto di lavoro neanche se chi li assume avesse risorse infinite. Chiedono il colloquio, si presentano con voluminosi curricula pieni di votazioni anche buone, enfatizzano master all’estero, credono di essere meritevoli di giganteschi lavori, poi iniziano a dare risposte confuse alle semplici domande “perché ti sei rivolto a noi?” “perché dovremmo assumerti?” “hai qualche idea sul contributo che potresti darci per far meglio il nostro lavoro?”. Non vale ripetere la tiritera di essere laureati con buoni voti, occorre anche mostrare di aver almeno un abbozzo di progetto di vita basato su una analisi dei punti di forza e di debolezza di quello che si può offrire professionalmente!
Il risultato, e non è un aneddoto (conosco casi peggiori), è di ritrovarsi a lavorare sì in azienda, ma come generici, a parlare con i colleghi turchi e tunisini sulle differenze tra l’agnello, il porcetto ed il kebab, ed a inveire quando viene superato nel lavoro da un extracomunitario (solito ritornello “come, io ho studiato a ***, quello lì chissà che razza di scuole ha fatto”, dimostrando per di più di non avere ancora imparato i veri parametri di valutazione delle persone). A questo discorso si potrebbe obiettare che, se non c’è lavoro, poco serve avere un corretto approccio. Forse le cose non stanno proprio così. Se i laureati in materie umanistiche dell’università di Cagliari trovano lavoro in media dopo 17 mesi, e quelli in ingegneria dopo 10 mesi (non tanto dopo gli ingegneri del Politecnico di Torino, che trovano lavoro in media dopo 8 mesi – dati dei laureati 2004), forse anche la scelta della laurea inciderà in qualche modo. Non ci possono essere a Cagliari circa 2000 iscritti a psicologia e solo 1000 nelle facoltà scientifiche; per non parlare dei 1800 iscritti nel gruppo di materie relative all’insegnamento. Sempre che arrivino alla laurea, cosa faranno tutti questi “umanisti”? Cercheranno di fare lavori opinabili come il trattamento psicologico dei Dsa? Cercheranno lavoro come insegnanti? Cercheranno di trovare un posto pubblico qualsivoglia inanellando concorsi su concorsi?
L’enorme riduzione dei concorsi pubblici ha chiuso la strada a coloro che hanno percorso una carriera scolastica come pecoroni, pensando che alla fine, prima o poi, avrebbero vinto un concorso. La scuola, poi, è ormai intasata da tutti quei laureati inutili che hanno scelto corsi di laurea assurdi, tanto poi “c’è l’insegnamento”. (tra parentesi, anche l’offerta formativa degli atenei sardi a volte non riesce nemmeno a soddisfare le richieste di legge per alcune figure professionali, quali gli educatori nelle strutture socio-assistenziali per anziani). E il discorso vale per tutti, dai laureati a chi non ha nessun titolo di studio. Quando sento imprenditori che affermano di non trovare risorse specializzate e che, addirittura in Sardegna, rifiutano commesse per mancanza di competenze disponibili, mi viene il dubbio (retorico, ci sono numerosi studi sull’argomento che confermano l’impressione) che non sia tanto la richiesta di lavoro che manca, quanto l’offerta del lavoro che serve. La soluzione, codarda, è quella di prendersela con il “mercato del lavoro”, che non è capace di “valorizzare i miei talenti” (creduti tali in quanto certificati dal foglio di carta del titolo di studio). Se uno si ritiene così bravo e così incompreso, perché allora non avvia qualcosa di suo? Se ritieni che psicologia o filosofia siano indirizzi di studi validi per procurarti pane e companatico, o perché nonostante il tuo diploma di clavicembalo, l’orchestra del Lirico di Cagliari non ti assume, non ti viene in mente che è sterile limitarsi ad inveire sulla mancanza di posti di lavoro, sulla carenza di risorse per la scuola, sull’ignoranza dei tuoi concittadini, sull’insensibilità delle aziende che ritengono una emerita idiozia la valutazione psicologica dello stress-correlato? Perché non ti metti invece in gioco con una tua iniziativa imprenditoriale? Anche qui, purtroppo, le caratteristiche del sistema educativo e sociale sardo giocano un ruolo nefasto. Provate a chiedere in giro che sentimenti suscitano le parole “profitto” o “iniziativa privata” o “imprenditore”. Sarete sommersi da un insieme di luoghi comuni che paragonano imprenditoria a evasione fiscale, sfruttamento dei lavoratori, inquinamento, arricchimento a spese degli altri, egoismo e così via. In Sardegna è fortemente deficitaria l’educazione all’imprenditoria, che significa educare “le abilità individuali al saper trasformare le idee in azione. L’imprenditorialità include la creatività, il senso di iniziativa, l’innovazione, l’assunzione del rischio, così come l’abilità a pianificare e gestire progetti, con l’obiettivo di raggiungere gli obiettivi” (sono parole targate UE). Anche in questo la scuola ha una responsabilità colossale, che può essere coperta non con altri finanziamenti, ma solo con un altrettanto colossale cambiamento di mentalità dei professori. Insegnanti che non hanno mai conosciuto il mondo del lavoro, da cui non possiamo aspettarci niente che non sia un modello di apprendimento burocratico, che non hanno quindi la strutturazione culturale per capire il mondo che li circonda, e debbono affidarsi agli opinionisti dei giornali per sapere che cosa pensare di un dato argomento. Scuola che magari insegna un sacco di cose, ma non la capacità di applicare le conoscenze ai contesti reali, rendendo le nozioni scolastiche inutili quanto una biblioteca senza un catalogo dei libri. Invece di educare le persone al raggiungimento di un risultato, economicamente ed eticamente giusto, i l nostro sistema educativo educa, al più, alla correttezza formale dei risultati. Non è importante risolvere un problema concreto, ma è importante saper fare una delibera inattaccabile! Ho avuto a che fare con altissimi, ed onestissimi, direttori regionali traviati a tal punto da questa mentalità che, quando alla loro pensione si sono trovati ad avviare una iniziativa imprenditoriale dove, ahimè, ero coinvolto con i miei soldi, hanno pensato che lo sviluppo aziendale dovesse seguire lo stesso approccio dell’Ente pubblico (se il potere politico ritiene necessario fare un porto turistico sul Gennargentu, il buon funzionario crea un ufficio apposito, con le previste dotazioni impiantistiche e di pianta organica e si preoccupa di realizzare il progetto nel rispetto di tutti i requisiti formali di legge). Il risultato? Sforzi molti e risultati nulli. Prevedo anche qui l’ obiezione: “Chi mi dà i soldi per la mia impresa?”. L’avvio di nuove attività imprenditoriali è caratterizzata in Sardegna da una insieme di elementi negativi che, pur presenti in altre regioni italiane, sono ulteriormente limitanti in Sardegna. Bassa diffusione della cultura d’impresa vuol dire anche che la valutazione dell’idea imprenditoriale per il finanziamento pubblico è affidata a persone non esperte nelle dinamiche d’impresa (funzionari regionali – esperti universitari). A questo segue una limitatissima capacità di supporto allo sviluppo aziendale, fornito sempre da esperti accademici e non da “practitioner” formatisi sul campo, cioè da imprenditori con esperienza pratica sulle dinamiche d’impresa e del mercato. Se si guardano i deposito bancari e postali, si intravvedono però vie d’uscita. I sardi hanno da parte circa 6.000 € a persona (per confronto, in Piemonte è 8.500€). Perché si preferisce affidare alle banche il compito di far fruttare questi soldi, invece di giocarli in una idea imprenditoriale? Perché chi ha l’idea cerca soldi presso l’ente pubblico, e non attraverso le proprie reti di conoscenza? Una soluzione alla quale sto cercando di dare il mio contributo, è quello di creare reti di “Investor Angels”, cioè persone che partecipano al finanziamento ed agli utili dell’impresa con risorse proprie. L’unico impegno richiesto, oltre all’investimento monetario, è di essere essi stessi imprenditori, in modo da poter fare una profonda e competente valutazione dell’idea imprenditoriale, garantita peraltro dal fatto che stanno investendo propri soldi, e non soldi pubblici. In Sardegna esistono numerose reti “dal basso”, non solo amicali e parentali, ma anche legate all’associazionismo, dall’oratorio fino al Rotary Club. Il mio sogno è che queste reti aggreghino anche persone che desiderano rischiare i propri soldi su idee innovative proposte dal clavicembalista o dal letterato, oltre che dal geologo o dal fisico e finalizzate a creare ricchezza. Però si giocherebbe a carte scoperte: io valuto la tua idea con estremo rigore, senza farti nessuno sconto, perché ci sto investendo del mio (tempo, denaro e competenze) e voglio un ritorno, tu devi darti da fare perché altrimenti perdi la faccia con me che ho creduto in te, e non con un impersonale funzionario pubblico al quale faccio vedere inoppugnabili carte che attestano formalmente la mia buona volontà, ma non l’inconsistenza dell’idea e l’incapacità a portarla avanti (attestata concretamente dall’insuccesso dell’iniziativa). Forse “idee dal basso” come questa contribuirebbero a distruggere quella koinè politico-culturale nella quale la Sardegna si trova immersa, creata da un ceto dirigente formato da politici, docenti universitari, alti burocrati, che magari bisticciano animatamente sulle ricette politiche e sui nomi di partito, ma che rimangono sempre all’interno delle stesse, datate e pericolose, coordinate culturali. Soprattutto, occorre che alle discussioni sulle nobili parole “equità” “redistribuzione” “giustizia” ecc. si portino ricette reali per “creare ricchezza”.

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Un commento

  1. Gianfranco Mattioli

    Questo articolo è PERFETTO. Sono figlio di una Sarda e ho vissuto a Cagliari fino alla laurea in Ingegneria Mineraria (1967). Dopo un colloquio fui assunto (dopo soli 2 mesi dalla laurea) a Milano nella più grande impresa di costruzioni di opere pubbliche d’Italia e tra le migliori del mondo. I dirigenti dell’impresa scoprirono con me l’esistenza degli ingegneri minerari, molto utili nella loro attività e mi chiesero se conoscevo qualcuno da assumere. Telefonai al mio relatore della laurea che segnalò 3 neo-laureati che furono immediatamente assunti. Dopo 3 mesi si LICENZIARONO, non perchè avevano trovato lavoro in Sardegna ma perchè a Milano si sentivano "nessuno". Nessuno li riconosceva per strada, nessuno li salutava, ecc. Io sono rimasto qui, mi potei sposare con la mia fidanzata sarda dopo un anno e mezzo (perchè risparmiando riuscii a mettere da parte i soldi per arredare l’appartamento, ovviamente in affitto). Vado spesso a Cagliari ma la mentalità non è molto diversa d’allora. I negozi riaprono alle 17 (anche d’inverno), perchè gli eventuali clienti devono adattarsi alle "esigenze" dei bottegai. Negli alberghi e nei ristoranti dei luoghi marini gestiti dai sardi spesso si è trattati con sufficienza e con prezzi elevati. Malgrado la bellezza dei posti e del mare la stagione dura pochissimo e con notevoli vuoti, Ovviamente i sardi si lamentano che vengono i "continentali" a colonizzare le coste sarde. Se le suddette coste fossero gestite dai romagnoli sarebbero sempre piene tutto l’anno. I Sardi non hanno lo spirito imprenditoriale, la massima aspirazione è un posto alla Regione (la più grande "industria" dell’Isola.

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