Con un ritardo che non può non essere doloso il governo italiano ratifica la Carta europea sulle minoranze linguistiche. Una decisione dai profili solo formali, dato che in Italia esiste già in materia la Legge 482 del 1999, sufficiente a garantire tutti gli effetti previsti nella Carta. L’importanza simbolica della decisione però è innegabile.
In molti, dalle nostre parti, hanno subito espresso soddisfazione in proposito, prendendola come una vittoria, una conferma delle proprie aspettative. Si tratta invece di una misura sostanzialmente coerente con l’egemonia culturale che da generazioni considera il sardo come un caso limite, un’eccezione scusabile a patto che rimanga inoffensiva. Gioire per questa soluzione significa aver metabolizzato la propria condizione marginale, regionale, in fondo insignificante, e alla fin fine di non aver capito niente della questione linguistica sarda.
Intanto va detto che se il sardo versa in una condizione patologica di dilalia è per responsabilità dei sardi stessi. Lasciamo stare i discorsi di acculturazione e di colonizzazione linguistica. È vero, sono processi avvenuti in Sardegna, su questo si può concordare. Ma chi ha offerto le condizioni più favorevoli alla riuscita dell’operazione siamo stati noi. Soprattutto negli ultimi quarant’anni abbiamo avuto tutti gli elementi di valutazione e tutte le possibilità per invertire la tendenza e riappropriarci del nostro patrimonio linguistico, da vero soggetto collettivo della propria storia. Se non l’abbiamo fatto, non possiamo attaccarci a responsabilità altrui.
Il problema che sta alla base di tale fallimento politico – perché di politica stiamo parlando – è che la questione linguistica sarda da troppo tempo è incastrata in una cornice concettuale che la trasforma in un circolo vizioso senza uscita. Che è ciò che emerge dalle dichiarazioni di questi giorni, in fondo. Pensare la questione linguistica sarda esclusivamente dentro il rapporto di relazione/opposizione tra il sardo e l’italiano non è la soluzione, come quasi tutti hanno pensato e fatto in decenni, ma è il problema.
La questione linguistica sarda è più complessa di così e si situa su un altro livello. Intanto il nostro patrimonio linguistico è di suo stratificato e articolato, già plurale. Storicamente plurale. E prescinde dal confronto con l’Italia e ancor più con l’italiano. Il sardo non esiste in quanto distinto dall’italiano o come minoranza linguistica in Italia. Il sardo è una lingua neolatina storica che esiste da prima che esistesse l’idea stessa dell’italiano come lingua, da secoli prima che l’italiano diventasse una lingua a tutti gli effetti e infine la lingua ufficiale di uno stato. Non abbiamo bisogno di certificazioni da parte dell’Italia, in questo senso. Chi le attende e ne gioisce, ha semplicemente già accettato la propria sottomissione.
Inoltre – e qui sta un punto centrale dell’intero discorso – dobbiamo imparare ad affrontare la faccenda dentro una cornice concettuale diversa, nostra, centrata sulla Sardegna, non sull’Italia. In questo senso, il sardo non è una lingua minoritaria, ma una lingua maggioritaria dentro un contesto plurilinguistico. Il sardo è la lingua storica della Sardegna. Ma non è l’unica lingua che vi si pratica. Le lingue dei sardi, da secoli, sono anche altre. Escludere dal novero delle nostre lingue il sistema del sassarese-castellanese e del gallurese-maddalenino, così come il catalano di Alghero e il tabarchino di San Pietro e Calasetta, è un’operazione puramente ideologica che non tiene conto della realtà antropologica e storica della Sardegna.
Allo stesso modo, oggi, rifiutarsi di considerare l’italiano come una lingua dei sardi è un abbaglio scientifico e politico, quali che siano le valutazioni sull’imposizione e sulla diffusione di questa lingua sull’Isola. L’italiano è una lingua dei sardi e lo è tanto più quanto più si evolve come tale, assumendo caratteristiche proprie, specie in termini sintattici, quelli più significativi. È una lingua bastarda, senza radici? Be’, questa argomentazione non ha alcun senso in termini storici e linguistici. Così come non lo avrebbe l’obiezione opposta che anche il sardo in fondo non è che una lingua dei dominatori (i romani).
L’equivoco fondamentale risiede insomma nel considerarci solo ed esclusivamente in termini regionali, proiettando questa condizione giuridica e politica indietro nel tempo, a conformare tutta la narrazione storia che ci riguarda, escludendo così i fenomeni e i processi culturali e linguistici realmente verificatisi. Con la conseguenza di aver accettato e canonizzato la divisione dei sardi in sardi “veri veri” (quelli “conservativi” o “resistenti”, nelle Zone Interne), sardi “veri ma così così” (i “campidanesi” o peggio i “maurreddini”) e gli “altri”, i figli di nessuno, gli stranieri in casa propria (galluresi, algheresi, carlofortini). Il fatto che la L. 482/99 non consideri il carlofortino e il gallurese tra le lingue minoritarie è sintomatico dell’orizzonte politico dentro il quale tale previsione ha un senso. Quell’orizzonte non è e non deve essere il nostro.
Nel nostro orizzonte storico e culturale tutte le lingue dei sardi sono lingue sarde. Possiamo fare tutte le distinzioni del caso, dentro questa cornice concettuale, ma non rinnegarla in favore di un’altra, pena la totale incomprensibilità della questione linguistica sarda e l’impossibilità di rivolverla.
Non c’è nulla di cui gloriarsi per la decisione formale del governo italiano, dunque, decisione che non sposta di una virgola né la disciplina giuridica vigente, né la situazione concreta delle lingue di Sardegna. La politica sarda dovrebbe invece applicarsi a rendere libere e liberamente utilizzabili tutte le lingue dei sardi, tra le quali inevitabilmente, per ragioni storiche e culturali, il sardo occupa il posto più rilevante. Il sardo come sistema linguistico unitario, che andrebbe normato e normalizzato per metterlo alla pari con qualsiasi altro sistema linguistico nazionale, tralasciando finalmente l’assurda querelle su “quale sardo”, ma affrontando la questione in un’ottica generale, nazionale appunto, abbandonando stereotipi funzionali alla nostra subalternità. In primis quella che si sintetizza nel conflitto tra campidanese e logudorese, considerate come due lingue distinte, espressione di due etnie diverse, secondo i fautori delle divisioni tra i sardi: una scempiaggine storica e linguistica da primato.
Per quel che mi consta – e non lo dico pro domo mea, ma come banale constatazione di cronaca – esiste una sola proposta in questo senso, che faccia giustizia dei troppi luoghi comuni e delle tante manipolazioni con cui è stata travisata e depotenziata la questione linguistica sarda. Una soluzione ormai conosciuta, su cui la politica sarda, il mondo della cultura, la scuola, l’università sono chiamati ad esprimersi, senza tentennamenti o pretesti. Non farlo e soffermarsi invece sulla notizia relativa alla decisione del governo italiano è sintomatico di quanto poco in realtà la questione interessi e di quanto sia invece comodo lasciarla nel suo stato di perenne incompiuta, buona da rispolverare come arma di distrazione di massa o come strumento egemonico per suscitare divisioni e rancori tra i sardi.
La sfida è lanciata. Non c’è volontà esterna che possa privarci del diritto – e del dovere – di fare quel che va fatto. Anche su questo si misurerà la capacità dei sardi di emanciparsi in termini storici. Chiaramente coò non significa confidare nell’attuale classe politica, accademica e culturale né nei mass media. Ma per fortuna la Sardegna ha molte risorse su cui contare. Serve la buona volontà e lo sforzo di consapevolezza indispensabili per superare residue resistenze ed equivoci annosi quanto insensati. Come su molte altre cose, non c’è governo italiano che tenga: tocca a noi.