di Vitale Scanu
Siamo davvero l’unico popolo al mondo a innalzare e onorare con orgoglio il vessillo degli invasori colonialisti. L’attuale bandiera regionale dei sardi a me, come a tanti altri sardi, non piace assolutamente, perché antistorica, umiliante e deprimente. Certo, quando vediamo il vessillo dei quattro mori sventolare negli edifici, nelle aule di riunione, nelle fiere, nelle assemblee, nei congressi ecc., ci riconosciamo e, in qualche misura, gli siamo anche affezionati. Bene o male, ci rappresenta insomma. Ma è un sentimento di superficie, perché non è "informato" del valore intrinseco e del contenuto storico inesistente di questo emblema. Quando, il 19 giugno del 1950 si tenne la prima assemblea del Consiglio regionale, all’ordine del giorno vi era anche la questione dello stemma ufficiale, il quale fu votato all’unanimità secondo il disegno che conosciamo. Sarà poi ratificato il 5 luglio del 1952 con decreto del presidente della repubblica (Luigi Einaudi). Ci fu un astenuto, in quell’assemblea, il consigliere professor Antonio Era, un vero luminare di scienze giuridiche dell’Università di Sassari, uno tra i più famosi e autorevoli studiosi di storia giuridica sarda medioevale e moderna, che così motivò la sua astensione: "La bandiera dei quattro mori non rappresenta, come si dice, i quattro Giudicati in cui la Sardegna era suddivisa ottocento anni fa, quand’era libera e indipendente. Questa è un’errata interpretazione storica e quindi non è né ovvio né obbligatorio scegliere proprio questo stemma, che è sì uno stemma popolare, ma non è quello stemma sardissimo che possiamo immaginare". Proviamo a pensarci. Fu il professor Ludovico Baille (1764-1839) che per primo riportò sullo stemma conosciuto forti interrogativi circa il suo significato intrinseco, storico, e sulla sua vuota sardità. Come ha dimostrato alcuni anni fa la professoressa dell’Università di Cagliari Luisa D’Arienzo, questa bandiera con le teste mozzate di quattro mori, ci viene geograficamente e politicamente dalla Spagna, la cui storia poco gloriosa in Sardegna inizia con il "regalo" dell’isola a Giacomo II re d’Aragona e di Valenza (era il 4 aprile 1297).da parte di papa Bonifacio VIII, regalo che infeudò ai re aragonesi la Sardegna. Da quella data comincia il dominio dello sfruttatore straniero di turno della nostra "patria", che durerà per quattro secoli. La "licentia invadendi" accordata dal papa a Giacomo II, di fatto dava all’aragonese il titolo di re di Sardegna, quando nell’isola già esistevano altri poteri legittimi e radicati. Lo stemma dei quattro mori era quello della corte d’Aragona fin dal XIII secolo. Quando il re Alfonso IV, nel 1323, con la sua spedizione conquistò mediante la forza la Sardegna, importò anche quello stemma. Quanto al significato intrinseco dei quattro mori, esistono le più svariate teorie, tutte basate su leggende autolaudative dei re conquistatori. Tra esse risalta quella della battaglia di Alcoraz degli aragonesi contro i mori (19 novembre 1096), scritta dal siciliano Luca Marineo, nato a Vizzini presso Catania attorno al 1460, finito in Spagna dove passò il resto della vita a tessere gli elogi dei regali padroni. In questa leggenda si descrive la vittoria del re Pietro I che, per merito di un celeste cavaliere apparso nel campo di battaglia avrebbe sconfitto i mori. Le tante leggende vennero fatte proprie e arricchite in vario modo anche da "studiosi" sardi, soprattutto nel secolo scorso. Era in quello stesso periodo che cominciava a sorgere la coscienza patriottica sarda (la quale esorbitò anche nel caso disastroso delle false Carte di Arborea che coprì di ridicolo gli storici sardi), con la sua storia vera, le sue sofferenze, le sue aspirazioni e la rivendicazione dei propri diritti. Gli aragonesi, forti di quella "concessione" del papa, ritenevano di poter trattare i re d’Arborea come loro feudatari, da dominare e assoggettare a tributo. In realtà i giudici d’Arborea, che non conoscevano né riconoscevano il sistema di dominio feudale nel loro regno (essendo uno stato "sovrano" non recognoscens superiorem e "perfetto" potendo stipulare in proprio trattati internazionali), mai hanno abdicato ai loro legittimi diritti giudicali, come ribadiva inequivocabilmente agli aragonesi il giudice Brancaleone Doria, salito al trono di Arborea per essere marito di Eleonora, figlia del giudice Mariano IV: "Ben sapete che noi signoreggiamo per conto della Casa d’Arborea. Questa signorìa non l’abbiamo, né l’abbiamo avuta, da un re o da una regina (aragonesi), ed a loro non siamo tenuti ad ubbidire come i baroni di Sicilia, dal momento che la signorìa e il dominio ci vengono da parte di madonna Eleonora, figlia e succeditrice, tramite il padre, del giudicato d’Arborea. La qual Casa d’Arborea detiene da cinquecento anni questa signorìa dell’isola". Eleonora, figlia di Mariano IV sposò Brancaleone Doria, imprigionato in seguito proditoriamente da Giovanni d’Aragona, che mirava a impadronirsi del giudicato d’Arborea. Mariano considerava gli aragonesi alleati politici e militari; questi invece ragionavano in termini feudali, o padronali, vedendo in Mariano un semplice feudatario. Ricordiamo che il regno già era stato dotato da Mariano di una sua costituzione in lingua sarda (una delle prime, se non la prima in Europa), la famosa Carta de logu, aggiornata e promulgata poi dalla figlia Eleonora (Pasqua del 1392) "pro conservari sa Justicia, et pacificu, tranquillu, et bonu istadu de su populu totu… de sa ditta Terra nostra, et de su Rennu d’Arbarèe". (La Carta resterà in vigore legislativo per l’Italia fino al Codice Feliciano del 1827). Alla totalità del regno sardo mancavano allora solo Castel di Cagliari e Alghero. Il resto era tutto Sardegna giudicale. Il giudice Mariano non poté vedere completato il suo sogno, perché morì di peste nera (1376). Ma gli aragonesi insistevano tignosamente a volersi impadronire di tutti i possedimenti giudicali. All’atto finale dell’epopea arborense, nello scontro definitivo di su occidroxiu (il mattatoio) a Sanluri, domenica 30 giugno 1409, i sardi lottavano sotto la bandiera dell’albero eradicato d’Arborea, gli aragonesi sotto la bandiera dei quattro mori. Era la fine del glorioso regno d’Arborea. Cinque secoli dopo, la classe politica dei sardi, con scarsa visione storica, adotterà come simbolo regionale… la bandiera aragonese dei quattro mori! E’ vero che gli iberici dicevano che i sardi sono "pocos, locos y desunidos". Ma locos a questo punto! Proprio a noi sardi è toccato di onorare e celebrare le imprese dei colonialisti invasori, innalzando un vessillo non sardo. Molto meglio sarebbe quindi r
ipensare uno stemma veramente e profondamente nostro. Con tutte le pagine che hanno strutturato la nostra realtà etnica (ancor prima di Roma e della Spagna), siamo ridotti a riconoscerci in quattro teste capitozzate di mori, di quei feroci masnadieri che con le loro scorrerie furono la più grande sventura della nostra gente per più di mille anni. E perché volere un nuovo simbolo, storico e sardo davvero, per la Sardegna? Perché pochi, di quello attuale, conoscono l’origine e il significato; perché quando si legge la storia dei "quattro mori" (completamente vuota di significato per i sardi) sembra di leggere solo pagine di estranei che ci hanno angariato; perché imposto dai conquistatori e quindi, quando lo esponiamo stiamo esponendo un simbolo straniero che ci ricorda non la nostra storia ma le nostre sventure. Non rappresenta la nostra realtà etnica. Una bandiera tutta nostra, pienamente rappresentativa, è il presupposto di base per riappropriarsi di una identità regionale dal contenuto storico plurimillenario, reale e incontestabile.
Mi chiamo Francesco Cano e vivo ad Olmedo, anche se la mia vita si svolge prevalentemente ad Alghero dove lavoro come maestro elementare. Ho 46 anni e oltre ad essere profondamente innamorato della mia terra, mi diletto a scrivere. Ho pubblicato due romanzi: Sassolino( Ed. Del Sole, 2006) e “CAMAFAME” (Ed. Del Sole 2007). La mia attività di scrittore inizia nel 2006 con la pubblicazione di “Sassolino”, una storia d’amore ambientata nelle falesie del promontorio di Capo Caccia: Punta Cristallo, riserva naturale e luogo di salvaguardia per alcuni rapaci in via di estinzione. Sassolino è un romanzo che tratta prevalentemente il tema della solitudine e della ricerca della felicità. In “Camafame” invece viene ricostruita la vicenda di mio padre nel periodo storico fra l’8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale. Il protagonista, condannato a un campo di sterminio nazista, riesce a fuggire dal treno diretto in Germania e grazie all’aiuto di una famiglia di contadini bresciani, viene dapprima curato e successivamente protetto in una cascina nascosta nella campagna: il Camafame. E’ in questo contesto che sboccia l’amore con una giovane contadina della famiglia, un amore che tuttavia non ha seguito, perchè lui deve precipitosamente ritornare in Sardegna a causa di una grave disgrazia che ha colpito la sua famiglia. Cinquant’anni dopo, l’ormai vecchio soldato ritrova il Camafame e la famiglia che lo aveva salvato dalla deportazione. Io ho vissuto quell’avvenimento e credo che le emozioni provate mi accompagneranno per tutta la vita. Notizie sulla mia attività letteraria sono facilmente rintracciabili in rete, ad esempio attraverso il motore di ricerca google: basta digitare il mio nome, Franco Cano. Vi scrivo con la speranza di avere la possibilità di presentare i miei romanzi presso i vostri circoli, poichè altre a rappresentare una tappa fondamentale del mio percorso artistico, mi darebbe la possibilità di stringere legami ancor più stretti con i miei conterranei di oltretirreno.
Fiducioso in un vostro positivo riscontro, vi porgo i miei migliori saluti. francocano@hotmail.it
CIAO A TUTTI, LETTORI, VISITATORI, COLLABORATORI, E UN GRAZIE A VOI RESPONSABILI DI “TOTTUS IN PARI”.IO CREDO SIA MIO DOVERE PREMETTERE DA SUBITO LA MIA IGNORANZA IN VARI SETTORI E MATERIE, TRA CUI L’ARGOMENTO CHE TRATTA IL NOSTRO CO-ISOLANO VITALE SCANU. SE LA STORIA E’ QUESTA CHE TU DESCRIVI PERCHE’ NON INFORMARE ALTRI COME ME CHE NON SAPENDO COME DICI TU CHE LA BANDIERA CHE SVENTOLIAMO E ‘PARI AD UN’OFFESA,E PROMUOVERE MAGARI UN REFERENDUM E CAMBIARLA CON UNA PIU’ ADATTA ALLA NOSTRA POSIZIONE E POPOLAZIONE.INSOMMA NOI ALLA FINE SIAMO SEMPRE QUELLI CHE BEVIAMO TUTTO QUELLO CHE CI DANNO E POI ANCHE SE SI TRATTA DI BEVANDE DANNOSE, SIAMO ANCHE COSTRETTI A RINGRAZIARE. NON SIAMO MESSI BENE (PURTROPPO).CERTO CHE IL PROBLEMA DELLA BANDIERA E’ PER COSI’ DIRE IL MALE MINORE, MA SE RIUSCIAMO A CURARE QUELLI, POTREMMO ARRIVARE A NON AVERE MALI PEGGIORI.ED E’ ANCHE VERO CHE CIO’ CHE SCRIVO APPAIONO COME BUONI PROPOSITI, E ANCORA PURTROPPO DEVO DIRE CHE ALLO STATO ATTUALE NON POSSO FARE PIU’ DI TANTO PER ESSERE PARTECIPE E COLLABORARE COME VORREI A QUESTI O ALTRI CAMBIAMENTI INERENTI LA “NOSTRA AMATA SARDEGNA”. MA NEL MIO PICCOLO E NEL MIO PENSIERO VIVO COL PIENO RISPETTO E PIENO SENTIMENTO PER LA MIA “TERRA SARDA”.E VIVO CON LA SPERANZA DI TORNARE AL PIU’ PRESTO A VIVERE IN “SARDEGNA”. VITALE PROVA A LANCIARE UN INVITO RIGUARDO ALLA NOSTRA BANDIERA, MAGARI SI TROVA IL GIUSTO RISCONTRO. GRAZIE A TUTTI.Renzo.
A beneficio di tutti i lettori di Tottus in pari, e a completamento di quanto detto da Vitale Scanu, informo che esiste un testo recente e aggiornato, oltre che scientificamente inappuntabile e scritto bene (qualità rara assai), sul tema del vessillo sardo: “La vera storia della bandiera dei sardi” di Franciscu Sedda, edito da Condaghes nel 2007. Franciscu Sedda, per chi non lo sapesse, è un semiologo che insegna all’università Tor Vergata di Roma.A mio avviso, il suo è un testo fondamentale, non solo per le risposte che dà su tante questioni aperte (o socchiuse) cui quasi mai si pensa, ma anche, se non soprattutto, per gli interrogativi che pone, relativamente ai nostri processi di identificazione collettiva come sardi.Ne consiglio a tutti la lettura. Essendo ormai pressoché esaurito, non sarebbe male rivolgersi, anche via e-mail, all’editore per sollecitarne la ristampa.Una bandiera propria e pregna di significato i sardi la avevano: era quella dell’albero deradicato verde in campo bianco. Al solo vederla sventolare sul campo di battaglia presso Uras, nel giugno del 1470, cinquantuno anni dopo la tragica battaglia di Sanluri (30 giugno 1409: sono 600 anni fra poco più d’un mese!), i sardi schierati agli ordini del viceré Carroz marchese di Quirra passarono repentinamente nel campo avverso, quello di Leonardo di Alagon, erede per via materna della famiglia giudicale arborense e legittimo ostensore di quel simbolo di libertà e indipendenza della Sardegna. Non sarebbe bello poter sventolare ancora quella bandiera?
“Una bandiera propria e pregna di significato per i sardi simbolo di libertà e indipendenza della Sardegna, sarebbe bello poter sventolare” …certo come no!”IL PROBLEMA DELLA BANDIERA E’ PER COSI’ DIRE IL MALE MINORE” sarebbe più bello che La Sardegna sia veramente libera e indipendente! altrimenti bandiera tricolore ,bandiera quatro mori ,bandiera albero arborense, non cambierà la triste realtà della Sardegna colonia in balia dei capricci dei poteri di turno