Ricordo bene quando qualche anno fa con altri amici e un dossier di proposte sotto braccio percorrevamo il Sulcis-Iglesiente per incontrare e parlare con le persone sulla necessità di cambiare rotta su quel mare mosso del polo industriale sulcitano. Sulla necessità di virare la barca dell’industria energetica sulcitana verso altri lidi. Lidi che non volevamo fossero di certo quelli del turismo rurale o dell’agricoltura, temi buttati lì così, come alcuni andavano predicando già da allora, facendo sognare bucolici paradisi, che a dire il vero appaiono piuttosto inadeguati alla odierna situazione sulcitana. Ma poi perché prendere in giro gli abitanti del Sulcis? Non bastano le prese in giro degli attuali amministratori locali e regionali e i vari sindacati a fare inutili retoriche? Gli operai del Sulcis sono tra i migliori operai del settore energetico che l’Europa può vantare. Con quale diritto si può chiedergli – Trasformatevi in ristoratori e contadini! l’azienda adesso chiude!? Avevamo chiaro che la soluzione era esclusivamente una conversione industriale delle diverse produzioni energetiche (e non solo energetiche), non in un altro settore economico ma semplicemente in un altro tipo di industria che avesse innanzitutto la caratteristica di non essere inquinante né per gli abitanti, né per il territorio, ma soprattutto un’industria sostenibile, e al passo con i tempi. Infatti grazie ai programmi di alcuni noti enti sappiamo che è possibile prevedere destinazioni d’uso mirate alla produzione energetica da fonti rinnovabili, garantendo così posti di lavoro e una crescita economica e sociale generale immediata in una terra come quella del Sulcis che da mezzo secolo subisce miopi politiche industriali, utili però come argomento di ricatto nelle campagne elettorali. Parallelamente a questa nuova e sana reindustrializzazione andrebbe avviata la bonifica dei siti industriali che a sua volta permette l’impiego immediato di migliaia di lavoratori. Una riconversione economica in un’ottica di risanamento ambientale: quindi prima la bonifica dei terreni, impiegando così al meglio tutte le forze nell’opera di risanamento, e nel contempo specializzando gli operai più giovani esistenti, ma anche prendendo altre forze e competenze per convertire il tutto in una seria produzione di energie alternative e pulite. Gli impianti oramai li conosciamo sono: il fotovoltaico, l’eolico, il solare termodinamico, ma anche la produzione d’energia da moto ondoso oramai diffusa in molte isole del mondo, e questo naturalmente con aziende produttrici o sviluppatrici delle tecnologie necessarie site in loco.
Un’azienda come l’Alcoa che come oggi rimane aperta a rappresentare l’ultimo baluardo di settori obsoleti come la produzione d’alluminio non è garanzia né per chi ci lavora in quel momento né per chi verrà dopo. Negli Stati Uniti hanno chiuso i battenti da molto tempo, sono venuti a “morire” qui, a farsi seppellire dai sardi come spesso accade per molte altre industrie in Sardegna. I becchini “dell’industria vintage”, siamo diventati questo. Era il 2009, e – a dire il vero – c’era poca attenzione verso queste proposte che presentammo. A volte diciamo che venivamo anche maltrattati per la sfacciataggine che avevamo nell’affermare senza mezzi termini “Signori, queste industrie vanno chiuse!”. Nel 2010, a gennaio, (sono giusto passati 2 anni) l’Alcoa minacciò la chiusura, sembrava cosa certa, come lo è oggi. Gli operai bloccarono l’aeroporto più volte, poi strade e altro ancora. I sindacati confederali organizzarono una manifestazione di piazza molto partecipata per i numeri della Sardegna: si parlò di ben 30mila sardi. L’Alcoa fu lo spunto per riportare l’attenzione politica italiana sull’economia sarda. I risultati della manifestazione e degli incontri che si susseguirono con il governo italiano furono che l’Alcoa decise di rimanere aperta per un altro tempo, un tempo non meglio definito. Nessuna promessa ad eternum o di altre produzioni sostitutive, ma soltanto…un “rimandiamo”. E tutti felici e contenti tornarono a lavorare in azienda. Oggi, tutto da capo. L’Alcoa non ce la fa più. Vuole chiudere, ha rimandato una volta … non può rifarlo. E i sardi? E gli operai? E gli amministratori locali e regionali? Soprattutto loro, gli amministratori rispondono in un unico coro: – noi sardi non abbiamo idee, non sappiamo produrre se non con industrie estere, non abbiamo capacità di “cambiare” la nostra economia, non sappiamo cosa ci può servire nel nostro domani, non conosciamo l’industria energetica del resto mondo… vi preghiamo, salvateci voi. Noi siamo degli incapaci… L’autonomismo non riesce a dare risposte, e neanche ad immaginarle. Oggi, ieri, avant’ieri. Non è cambiato niente. E invece basterebbe poco: volontà politica e competenze. Ah! Merce rara di questi tempi. La costruzione di un nuovo tessuto produttivo rispettoso dell’ambiente e del futuro dei nostri figli è l’unico imperativo che i sardi e una vera classe dirigente dovrebbe avere in questo momento. A volte mi chiedo se la speranza di essere intelligenti ci è rimasta.
Grazie Max per l’attenzione, davvero. Un grande abbraccio con la speranza di rivederci prestissimo!
incredibile connivenza tra politica e sindacati per l’immobilismo più assoluto. Complimenti Ornella, ricordo benissimo le proposte di riconversione che avevate elaborato. Brava
Anche io la penso allo stesso modo. Illustro la sconvenienza per gli operai e per la collettività che si ha nel tenere aperta ALCOA in questo mio post:
http://inlibertade.blogspot.com/2012/02/siamo-tutti-soci-di-alcoa-pretendiamo.html
ENRICO PIRAS