di Sergio Portas
Nell’inutile speranza di salvaguardare la mia anima dalla congerie culturale che tutti accomuna nell’indistinta globalità che non distingue un mandriano del Montana dal derviscio ruotante in Cappadocia, mi sono iscritto a un corso di ballo sardo. Accidenti che idea! Direte voi, passati (non da molto) i sessanta… no, la faccenda è più complessa e attiene a quell’ordine di pensamenti tutti rivolti a spiegare come i sardi che, per scelta o no, abbiano dovuto lasciare l’isola natia siano destinati a vivere una vita "fottuti di malinconia", come diceva quella canzone. Insomma qui è in gioco l’eterna questione dell’identità. Se questi matti che stravincono le elezioni da queste parti, inventandosi a patria una Padania che invano cerchereste sulle carte geografiche di Google, vanno discettando di privilegi da destinarsi "in primis" ai nativi: casa, lavoro, posti in metropolitana, in grazia di una loro appartenenza alla terra che li ha visti nascere, occorre che gli "stranieri" si costruiscano una dignità altra. E io ho pensato onestamente che avrei potuto fare il sardo, seppur di ritorno. Che in verità è cosa più facile a dirsi che a farsi. Una volta che è passato più di mezzo secolo da quando, in quel di Guspini, mi svegliavo al mattino con l’aria profumata dai pini che facevano (fanno) corona al Monti Mannu. Ines Sau, che è di Tonara e ha occhi di zaffiro, tiene corsi di ballo sardo alla periferia di Milano e si vanta di avere iniziato a su "Ballu Tundu" ballerini di ogni età e provenienza. Infatti qui ci sono sardi, figli di sardi e , la più parte, un mucchio di altre persone che non si capisce dove abbiano contratto quella febbre, che si trasmette regolarmente da uomo a uomo, che prende il nome di "sardità". Ad onor del vero i miei tentativi primari di tenere il ritmo ( sembra facile: uno, due, tre e quattro!) assomigliano a quelli di una foca monaca lontana dall’acqua e inducono Ines ad affidarmi alle cure di un insegnante che si dedichi totalmente a me: sua figlia Tania, diciannove anni appena compiuti. Tania è nata in continente ma, accento lombardo a parte, a domanda specifica risponde che è sarda. Vuole essere sarda. Nel mentre mi porta a braccetto tra le note di un "Dillu", mi dice che balla fin da piccola, a Tonara, dove sono i nonni, anche col costume tradizionale: la gonna di orbace rossa finemente pieghettata, lo scialle in seta marrone ricamato a punto pieno,seta verde per le foglie, celeste per le margherite, rosse le rose e gialle le mammole. E’ comunque grazie a lei e alla sua pazienza se per tre lezioni riesco a inserirmi dignitosamente nel lavoro del gruppo, senza troppo vergognarmi, ricordando quei versi dell’Ecclesiaste che dicono esserci un tempo specifico per tutte le cose: temo che il mio tempo per il ballo sardo sia, ahimè, scaduto definitivamente. E’ comunque grazie a questi precedenti che mi arriva un invito per la serata di domenica nove a partecipare al terzo festival dell’organetto, organizzato dal gruppo folck "Ichnos" di Cinisello Balsamo. Questi di Ichnos dal 2000 si sono organizzati in associazione culturale che privilegia la musica, il ballo e gli abiti tradizionali della Sardegna. Sono una quarantina e vestono, nelle loro esibizioni, costumi che provengono un po’ da tutta l’isola, da Ittiri a Mamoiada a Bitti, Narcao, Senis, Oristano. Le modalità di svolgimento del festival sono di tipo spartano: una grande sala con le sedie di plastica dura alle pareti, un piccolo bar che vende qualche coca cola e fiumi di birra chiara ( mi dicono che in Sardegna usa così)e una postazione microfoni ad uso degli artisti che suoneranno gli organetti. Tutta la gente presente è invitata a ballare fino al totale stordimento ("Non si uccidono così anche i cavalli?"). Comincia Stefania Madeddu, che viene da Birori, con un ballo del Marghine, un "Passu Torrau" e una Danza di Dominineddu. Mi dice di saper suonare più di venti balli diversi. Ha cominciato a suonare ad orecchio da quando aveva sei anni e ora non ne ha che diciotto, prima col nonno, adesso col maestro Silvano Fadda, se la cava egregiamente anche con l’armonica a bocca e la fisarmonica. Da parecchi anni gira le feste del nuorese destando stupore con un viso da ragazzina e una tecnica di suono che pare vecchia di secoli. Qui ballano tutti, vecchi e giovani, emigrati e sardi doc, paiono stregati da questa nenia dagli accenti ancestrali, che richiama a feste di campi arsi dal sole, quando il vino girava sulla bocca di tutti dalla stessa zucca svuotata , già contenitore biologico ante litteram. Poi tocca ad Alessandro Atzei, anche lui giovanissimo, mi dice che suona solo da tre anni, fa parte del gruppo folk S. Mariedda di Marrubiu, è di Palmas Arborea, calzoni di velluto nero e camicia candida con due bottoncini sul collo di filigrana d’Oristano. Fa ammattire la gente con un "Ballu Gabillu", una Danza di Silanos e unu "Ballu a tresi". Gianfranco Carboni che è di Tonara non può che cominciare con su "Ballu ‘e Tonara" ( ricordarsi di iniziare col piede destro!) mi dice di aver lavorato per parecchi anni all’esattoria di Guspini e che non gli sembro una faccia del tutto nuova. A suo dire il più bravo dei suonatori che si sono esibiti finora è il nuorese Marco Sale, di Mamoiada, con "su bonette" di velluto nero che ha suonato un indiavolato "Passu Torrau" dal titolo sintomatico:"Sa Mamoiadina". Mamma mia mi ha raccomandato assolutamente di andare a salutare Danilo Pinna, che è di Dualchi, il paese di nascita del nonno. I suoi fratelli gestivano "Su Zilleri"del paese quindi come gli dico che sono di stirpe Cherchi (nonno era tziu Domenicu Crecchi)gli si accende negli occhi quella luce di riconoscimento tutta isolana: come fossi uno di famiglia ritrovato improvvisamente. Mi dice che più che suonatore lui si sente ballerino, conosce e suona giusto unu "Dillu" e su "Ballittu",è qui col fratello Luciano e davvero insieme sono uno spettacolo di destrezza e agilità, sia quando fanno girare la dama del momento come fosse una vela sospinta da un robusto maestrale sia quando mulinano i piedi senza mai perdere il passo nella frenesia controllata di una "Logudoresa" che incanta. I suonatori che vengono dalla Sardegna (ce ne sono anche da Desulo,da Lotzorai) sono quasi tutti giovanissimi e anche tra chi balla non mancano i ragazzi che, nati qui, hanno scelto, come Tania Sau, di essere sardi per la vita. Di voler vivere alla sarda. Cominciando col riappropriarsi delle espressioni culturali una volta patrimonio di tutti indistintamente, nei vari paesi della Sardegna. Ballano, cantano, suonano, come Gonario Ultei che ha imparato a suonare l’organetto dal padre Tommaso, di Chiaromonti. O come Alberico Guarzoni, genitori di Ittiri, che pur lavorando a Milano studia a Sassari demo-etno-antropologia, nella facoltà di lettere e filosofia, e sa tutto, ma proprio tutto, dei costumi caratteristici dei sardi. Anche lui e la sorella ballano come ittiresi doc. Io prendo qualche appunto e qualche foto, non proprio stabile sulle gambe, che tutti, ma proprio tutti, vogliono offrirmi una birra.