di Valentina Usala
31, giovedì Giòbia, su trintunu.
Il fatidico giorno era ormai giunto ed il mio cuore trasudava paura, dolore e rabbia.
Io, Torixeddu – così mi chiamavano ad Escalaplano – mi preparavo per il viaggio a Cagliari dove mi sarei imbarcato per Civitavecchia.
Caricammo i bagagli, o meglio una sola valigia, con i miei pochi vestiti.
Solo quelli potei stipare… anche se avrei preferito portarmi dietro rami di mirto, un pugno di terra, l’acqua delle fonti e del rio, un pezzo di cielo, i rintocchi delle campane, le note dell’organetto, il profumo dei cibi, il suono del vociare delle persone, tutto insomma. Tutto. Ma in quel caso cento valige non sarebbero state sufficienti.
E così dovevo fare spazio nel cuore e nella mente. Qui avrei custodito Escalaplano.
Ero rassegnato. Ormai non c’era più nulla da fare.
Guardavo i miei monti che da imponenti che erano si facevano sempre più minuscoli e nel mentre ripercorrevo gli istanti felici che avrei potuto vivere ancora, attimi fuggiti a causa di un destino e di una sorte che ritenevo ingiusta.
Per cercare di rasserenarmi cercavo di pensare a fatti e fatterelli delle mie interminabili giornate in paese. Ma quando arrivai a Dolianova capii che il momento stava per giungere. Il distacco definitivo era alle porte.
Avvertivo non solo dolore, ma anche rabbia… tanta rabbia intrisa di uno strascico di nostalgia, perché, sinceramente parlando, la Sardegna mi mancava già.
A quel punto iniziai a meditare dicendomi: «Pensa a quante cose nuove potrò vedere e imparare. A quante persone potrò conoscere! Caspita, avrò la possibilità di vedere Roma.»
Scendemmo dalla macchina. Abbracciai mamma e poi, ovviamente, scoppiammo a piangere.
La nave, enorme, era arrivata. Ci fecero salire. Diedi un bacio alla mia terra, simbolicamente. Io e gli altri escalaplanesi. All’unisono. Poi mi voltai e finii di percorrere la passerella. Ero dentro il ventre panciuto
della nave. Direzione Civitavecchia. Meta Riano. Come a dire il nulla.
Sì, per me quei luoghi erano niente. Perché non erano Sardegna.
Ero talmente amareggiato che non mi sistemai neanche in cabina.
Corsi direttamente sul ponte, per dare un ultimo sguardo nostalgico a Cagliari. E sperando, ingenuamente, di vedere il paese. In fondo, pensavo, la nave era così alta!
Il suono della sirena segnalò la partenza. Quando gli ormeggi si staccarono fu come se mi spezzassero il cuore.
Osservai le funi lasciarsi andare con estrema semplicità. Mosse un poco dal vento e dal mare, mentre gli addetti portuali le tiravano verso sé. Avrei voluto urlare, gridare, ma a cosa sarebbe servito?
Intanto la nave si staccava dalla banchina… presto fu oltre i moli, verso il mare aperto. Solo, con l’animo straziato, mi allontanavo dalla mia Sardegna.
Il mare era sempre più vasto e blu e la costa sempre più lontana.
sembra di leggere la mia partenza e quella di tantissimi altri in quei tempi…
mi ricordono i miei 17 anni …….. difficili
bellissima, complimenti…..che tristezza però, come lo capisco Torixeddu
in quella nave c’ero anch’io,TANTO TEMPO FA.
Ho provato le stesse sensazioni del protagonista, alla fine degli anni sessanta, per cinque lunghi anni, puntualmente ai primi di ottobre partivo per il collegio, per la prima volta lasciavo il mio paese natìo, Escalaplano, un lungo viaggio verso il “continente”, una valigia di cartone con pochi indumenti, ma tanta nostalgia che mi son portata sempre nel mio cuore, nostalgia del mio paese, la mia terra e la mia famiglia!