di Roberta Murroni
Ho conosciuto Agostino Curcu nel marzo 2010; ero in visita all’amico Giampietro Borghero, emigrato di Carloforte residente a Punta Alta, in provincia di Buenos Aires. In collaborazione col Centro Studi SEA di Villacidro, il CEMLA di Buenos Aires e la professoressa Emilia Perassi, ho svolto una ricerca sui sardi nati in alcuni comuni del Sulcis Iglesiente ed emigrati in Argentina nel secondo dopoguerra, lavoro che sarà parte del prossimo volume del Centro Studi SEA sulle migrazioni dalle piccole isole del Mediterraneo verso Argentina, Uruguay e Brasile. Tuttavia, tra i sardi emigrati oltremare che mi è capitato di incontrare durante il viaggio di tre mesi che mi ha portata a scandagliare la provincia bonearense, numerosi non erano sulcitani. Borghero mi accompagnò a Medanos, dove feci la conoscenza del mio informatore. Agostino Curcu è nato il 21 dicembre 1913 a Scano Montiferro; come tiene a specificare, nel suo castellano molto sardo, la cittadina «era de Cagliari, despues lo hicieron de Nuoro e ahora es de Oristano». Frutto di un felice matrimonio da cui nacquero ben dieci figli (una morì bambina di tifo, «porque se desconocía la malatia»), Agostino si dedicò fin da piccolo al lavoro dei campi. Non mi racconta delle sue esperienze scolastiche, e mi viene quindi da pensare che non abbia studiato, se mai l’ha fatto, oltre le scuole elementari – come era molto comune all’epoca. Di tutti i fratelli, restano invita solo lui e una sorella di quattro anni più giovane, Annamaria, che vive a 45 km da Oristano – non ci dice dove – e con cui ha frequenti contatti telefonici. Chiedo in che lingua parlino tra loro, mi risponde che ovviamente comunicano in sardo; lui non ricorda quasi più l’italiano, e non è difficile credergli: da quando è partito non è più tornato in patria, e non mostra la minima nostalgia. Fin dall’infanzia, racconta, lavorava nei campi con tutta la famiglia, fin quando: «por razones de guerra tuvimos la necesidad de tra bacar en minera, sin poder tomar agua ni descanso». Afferma così di aver lavorato nel Sulcis, a Carbonia, nella miniera di eschisorgiu (si tratta in realtà di Pozzo Schisorgiu, area recentemente bonificata). Parla confusamente di un coronel Manca che fece denunciare al comando un suo cognato per non essere tornato al «ricovero de soldados. Era il 1943». Parla della miniera, una mina de carbone… El carbone se sacaba con el motopico… En la galeria, abriendo los caminos! Yo trabacaba a setenta metros. Me quedé dieciocho meses, entré nel 40 y me fui nel 43. Era un trabaco muy bien militarizado, no era vida, solo trabaco sin descanso, solo fatica y dolor, era muy malo pero se sobrevivia. Fue un martirio. Del lavoro in miniera non vuole aggiungere altro; a dire il vero, sembra piuttosto provato mentre ricorda quanto avvenne in quelle gallerie. Borghero e io soprassediamo, e gli chiediamo di raccontarci del suo arrivo in Argentina. La motivazione per recarsi oltremare nel caso di Agostino era la stessa che univa molti migranti: cambiare vita. Forte della presenza in Argentina di due zii materni, decise di partire. Uno dei due era riuscito ad acquisire un discreto status sociale e così «me dío la ilusión». Agostino era scapolo, aveva solo ventisette anni, niente lo legava alla terra natia se non la famiglia: scelse di muoversi. Invece di andare a Genova, fu mandato a Napoli, dove, dice, «había mucha mafia»; ricorda di aver visto molta gente vivere nella miseria e, avendo paura, con «la plata bien guardada», prese il treno per Civitavecchia e infine per Genova, dove viveva una sua cugina, sposata con una guarda di sicurezza. A Buenos Aires lo attendevano gli zii; la stessa notte in cui arrivò nella capitale porteña presero insieme il treno fino a Belgrano, poiverso Necochea e infine a Mar del Plata, dove questi vivevano. Restò in quella città un mese, lavorando nella fabbrica di formaggio di un ebreo, dove «se ganava poca plata y trabacava mucho». Stanco, dopo appena un mese decise di tornare «in Capital» a fare dei colloqui di lavoro; fu assunto in una azienda tessile, dove rimase per circa trent’anni: «a los veinte años de trabaco me dieron la medaglia de plata y a los 25 de oro», racconta con fierezza. I tempi della miniera erano davvero finiti. Inviò le medaglie in Sardegna, voleva che i fratelli le conservassero e fossero fieri di lui: ora, ci assicura Agostino, sono ancora custodite dalla sorella. Un anno prima del raggiungimento dell’età pensionabile, il capo gli chiese di restare: «quedate porque en los nuevos no podemos contar». Così fece, e andò in pensione soltanto a 75 anni, anche se, ancora una volta, il capo proponeva «si quieres, puedes quedarte…». Della sua vita privata ci dice poco, è molto riservato; sappiamo dai suoi racconti che si costruì la casa da solo in San Isidro; aveva una fidanzata, più giovane di lui, si sposarono nel 1965: «eramos ya viecos, yo le decía que ya teníamos una edad que no pudíamos tener hicos». Qualche anno dopo, la moglie si ammalò e nel 1972 morì. Quando andò in pensione, Agostino andò a vivere a Medanos, su consiglio un amico. Qui conobbe Haydée, la seconda moglie, che «desafortunadamente tiene origen inglesa. Gracias a Dios vamos bien, son 12 años que tuvimos juntos; yo tenía 80 años y ella 73, era viuda y vivía ahí». Il racconto di Agostino si ferma qui. Il nostro testimone appare talvolta un po’ confusionario, ma le sue parole sono molto sentite. Mostra la massima commozione quando si riferisce alla seconda moglie, pur sottolineandone con disappunto l’origine inglese. Quando parla della Sardegna, invece, emerge molta amarezza al ricordo del lavoro «militarizado, un martirio». Non è mai tornato in terra sarda, dice, perché non ha mai sentito nostalgia della sua isola.
Per gentile concessione della Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (http://rime.to.cnr.it)
grande Roberta, bella intervista, brava!