di Lucio Salis – Unione Sarda
Se non la più grande, è certo la più importante azienda sarda. Un gigante bianco. All’anagrafe si chiama “Cooperativa 3A” (Assegnatari associati Arborea), ma per tutti è Latte Arborea. Leader in Sardegna (80% del mercato), quarta a livello nazionale, dopo Parmalat, Granarolo e Sterilgarda. Con 150 prodotti in listino, riesce a infilarli nel frigo di quasi tutti i sardi: ne inventa almeno 2 all’anno. Chi non ha il caratteristico Tetra Pack, si ritrova il formaggio Baronetto, la Mozzarella cubettata, la Margheritona o il classico Dolce sardo: la fantasia del marketing non ha limiti. Ma la vera impresa è riuscire a tenere i 267 soci, di tutta l’Isola, sotto lo stesso tetto (marchio) senza farli litigare (troppo): infatti raccoglie 200 milioni di litri di latte vaccino all’anno, partendo dall’Oristanese, ma spingendosi fino al Sulcis, alla Baronia e al Sassarese. Miracolo? Non esageriamo. Il direttore generale Francesco Casula, 41 anni, di Cagliari, laurea in Agraria a Pisa, svela il mistero: fatturato 2010, quasi 130 milioni di euro (+3,6 % rispetto all’anno precedente). Prezzo del latte nel 2009: 38 centesimi al litro, «6 centesimi in più che in Lombardia e comunque sempre superiore (fra il 16 e il 18 per cento) alla media nazionale». Inevitabile il raffronto col settore ovino, che raccoglie 300 milioni di litri di latte in 80 caseifici, mentre ad Arborea se ne lavorano 200 milioni in un’unica struttura. Meditare. Ma non sarebbe giusto identificare il segreto del successo della 3A nel dinamismo aziendale, qualità dei prodotti e conti in ordine. Alla base ci sono vecchie radici, ben piantate in una storia di uomini, sofferenze, battaglie, che nell’Isola hanno riscontri simili solo nella piana di Alghero. I soci fondatori sono infatti discendenti di quei pionieri che negli anni Venti arrivarono da Veneto ed Emilia Romagna per lavorare nei poderi bonificati di Mussolinia. Gli stessi che nel secondo dopoguerra parteciparono alle lotte per la terra e beneficiarono della Riforma agraria voluta dal governo De Gasperi, con Antonio Segni ministro dell’Agricoltura. Plinio Magnani, 54 anni, presidente della Cooperativa 3A da 10, è un discendente, di terza generazione, di quegli immigrati che si chiamavano Cenghialta, Nalli, Milan, Tamburin ecc. Un allevatore vero, con tanto di segno del sole a mezza fronte, che dialoga benissimo coi manager. È nato in una delle duecento famiglie proiettate dalle rive del Po negli stagni di Sassu, S’Ena Arrubia e San Giovanni. Nelle sue parole l’eco di tempi terribili, flagelli biblici: «Una spaventosa carestia aveva colpito le regioni del Nord Italia. La gente era alla fame. La lira carta straccia, coi soldi per comprare una casa non si riusciva ad avere neppure un paio di scarpe. Unica alternativa, emigrare in America, Sardegna o a Latina. Molti andarono negli Stati Uniti convinti di trovare chissà che ma se ne pentirono. La famiglia di mio nonno Plinio, 20 persone, scelse la Sardegna. Fu una delle prime ad arrivare da Guastalla, nel 1922. Non avevano nulla e non trovarono nulla: solo terra, malaria e mezzadria. C’era voluto un grande sforzo progettuale e il sacrificio di centinaia di sardi per prosciugare quelle paludi». Mezzadria, parola che Magnani pronuncia con amarezza, quasi una condanna: «Mio padre, Primo, mi raccontava che erano costretti a lavorare per le “Aziende agroalimentari associate”, emanazione della Sbs (Società bonifiche sarde) che aveva realizzato il progetto di risanamento del territorio. Gli avevano dato una mucca per ogni componente la famiglia. C’era chi produceva latte, tabacco, ortaggi; altri vino, riso, ma la metà di tutto finiva alla Sbs. Un rapporto da servi, ti lasciavano solo il minimo per sopravvivere. Il padrone era la Sbs. Era duro andare avanti. Quattro fratelli di mio nonno hanno alzato bandiera bianca e sono rientrati nella penisola, un altro è morto a Cagliari sotto le bombe, un altro ancora se n’è andato a Sassari. Faceva il pittore». Per fortuna, i rapporti coi sardi erano buoni, «anche se all’inizio non era facile inserirsi, farsi voler bene. Mia nonna, Teresina Cenghialta, diceva: “Quando non c’è niente, siamo tutti amici”. Erano poveri, si davano una mano a vicenda, praticavano lo scambio. E oggi la metà delle famiglie di Arborea sono frutto di questi rapporti». Vita da frontiera. Un cambiamento radicale avvenne nel 1956, con la Riforma agraria: «Fine della mezzadria e dello sfruttamento. Mai più servi». Nella zona iniziò a operare l’Etfas, ente regionale (oggi Laore) che aveva il compito di realizzare la Riforma agraria e di assistere agricoltori e allevatori nelle loro attività. Magnani ricorda che, nel ’56, «gli allevatori decisero di fondare la cooperativa perché avevano capito che solo così avrebbero potuto mantenere ciò che avevano. Nacque un progetto portato avanti negli anni. Forte. Trasmesso poi di padre in figlio. Con la partecipazione di sardi che hanno recepito questa mentalità associativa». Ovviamente c’era chi non era d’accordo: «Una divisione soprattutto politica, fra chi era rimasto legato ai miti del Fascismo e chi si sentiva invece proiettato verso la Democrazia». Anche Casula sottolinea che «la coesione fra i soci è stata fondamentale per poter estendere il concetto di cooperativa al resto della Sardegna. Soprattutto in momenti difficili, come nel ’93, quando è stata accorpata la coop di Oristano in difficoltà e, nel 2002, la Coapla di Sassari. Senza questa forza e convinzione dei soci non sarebbe stato possibile portare avanti una certa politica industriale e commerciale, né realizzare l’attuale stabilimento con un’attività di grandi numeri. Perché il nostro obiettivo era dare il latte ai sardi. Tutti i giorni». Il primo nucleo della 3A si formò intorno al caseificio ex Sbs. E creò una sorta di mutazione nella comunità. Si abbandonò il concetto di multicolturalità, alla base della bonifica, e si privilegiò l’allevamento, che dava maggiori soddisfazioni: «Le cose sono andate bene sin dall’inizio – spiega Magnani – soprattutto perché la gente si sentiva libera. Dal ’56 al ’76 creammo tutto partendo quasi da zero. Ma c’era molto entusiasmo e la consapevolezza di realizzare qualcosa di importante». Da principio, il latte era raccolto e distribuito in bidoni, poi, grazie alla tecnologia, venne pastorizzato e venduto in un raggio territoriale sempre più ampio. Nell”80 iniziò l’epoca del “tetraedro”, il caratteristico contenitore di cartone giallo. Nel 2000 il vecchio stabilimento, al centro di Arborea, fu abbandonato per il nuovo complesso subito fuori dal paese: 24 mila metri quadrati coperti (su un totale di 61 mila) all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, dove lavorano 200 addetti fissi. Costo: 70 miliardi di lire. In parte autofinanziati: per 7 anni i soci hanno versato alla coop 20 lire per ogni litro di latte prodotto, formando un capitale di 15 miliardi. «Frutto – precisa orgoglioso Magnani – della contemporanea crescita culturale e manageriale del socio e dell’azienda. Noi abbiamo sempre dato indicazioni, mai obbligato nessuno a fare le cose, ma i soci ci hanno seguiti: così e nata una grande forza. Una cultura solida, rispetto alle esigenze del mercato, che altri non hanno avuto».
Questo significa anche garanzia assoluta sulla qualità del latte «che viene analizzato da 18 esperti nel nostro laboratorio prima di entrare in stabilimento. Da 50 anni proviene dalle stesse aziende – precisa Casula – di ognuna sappiamo tutto. Monitoriamo la filiera di produzione, dal foraggio al prodotto finito. Ma abbiamo anche uno staff di agronomi e veterinari che visita le stalle, dove si allevano 30 mila vacche. Facciamo oltre 500 mila test e controlli all’anno. Infine, c’è un soggetto terzo che supervisiona tutto il nostro lavoro».
Come dire, garanzia ma anche trasparenza assoluta. Il servizio marketing e comunicazione, diretto da Stefano Reali, ha varato nel 2000 un protocollo d’intesa con la scuola e “Porte aperte ad Arborea”, programma di educazione alimentare e stili di vita corretti destinato agli studenti. Ogni anno organizza un convegno sul tema, cui partecipano 500 docenti. Una conferma del ruolo sociale della Cooperativa 3A ma anche lungimirante politica di marketing: piccoli consumatori crescono.