L’ULTIMO VOLO DI UNA FARFALLA: LA VITA DI ‘DONNA GRAZIA’ GIOVANNA MARIA TERESA TOLU VISSUTA A CAVALLO TRA 800 E 900

Quella casa, un tempo signorile, dove la vita scorreva cadenzata da vessazioni e ostentata opulenza, è oggi immersa nel silenzio, senza smalto e orfana di voci.

L’ultima persona ad aver abitato in quel che resta della Casa de su puthu ‘e prejone in via Ichnusa a Oliena, è stata donna Grazia della nobile famiglia dei Tolu risalenti alla seconda metà del 500.

Quando ho conosciuto donna Grazia Giovanna Maria Teresa Tolu, nata il 12 febbraio 1874 da don Giacomo procuratore e Fineschi Luigia di Siena, aveva già perso titolo e ricchezza ma la nobiltà le era rimasta tutta, grazie alle sue doti morali e alla sua straordinaria bontà d’animo. Corporatura esile e slanciata, viso minuto dai tratti gentili, elegante seppur sempre vestita di nero con lo stesso abito con due tasche a toppa dove custodiva la chiave dell’ingresso pedonale del portone in legno, mentre un cappottino e una sciarpa velata sul capo la proteggevano dai rigori invernali. Era usuale incontrarla con un secchiello in alluminio per comprare il latte da ciu Cattoi o con una piccola anfora in terracotta per attingere l’acqua dalla fontanella del quartiere di fronte a s’istancu de cia Minnica.

Quella casa che tante volte mi aveva accolto bambina, ora si mostrava in tutta la sua decadenza.

Varcata la soglia, sulla destra la palma dal lungo fusto proteso verso il sole, verso la vita, era ancora ricoperto di muschio verde, avvinto fino alla sommità dall’edera e dall’ombelico di Venere, eterno custode dell’umile cucina, unica stanza staccata dal corpo della casa articolata su due livelli. Quell’ambiente dai muri sgretolati, il soffitto cadente, il caminetto senza fiamma, un tempo ci aveva tenute vicine a raccontarci, che cosa poi lei trovasse d’interessante nei miei discorsi da bambina, non è dato sapere. Oltre, i magazzini e le stalle dove il solerte custode ricoverava buoi e cavalli, delimitavano il muro perimetrale dell’ampio cortile. Una porta perennemente chiusa nascondeva l’accesso ad un pozzo secolare, “su puthu ‘e prejone”, per me motivo di attrazione per tutto il mistero che sprigionava e poiché lei mi aveva più volte raccomandato di starne lontana, ne osservavo rigorosamente le distanze.

Con le sue storie viaggiavo a ritroso nel tempo, un’umanità intera animava quella casa dove una servitù devota e concitata eseguiva gli ordini dei blasonati padroni.

Donna Grazia ricordava la mamma donna Luigia, giovane e bella, venuta a Oliena dalla Toscana per vivere la sua fiaba. Illusioni disattese e sogni infranti forse da un marito ruvido e scaltro, forse seducente, che mal si conciliava con la sua innata finezza. Era troppo gentile e troppo raffinata Luigia Fineschi per don Jame, uomo duro e superbo che continuava ad esercitare il potere tramandato dai padri.

Negli ultimi anni della sua vita, donna Grazia, ormai sempre più povera, viveva nell’indigenza scontando forse il fio di colpe altrui. Cieca e malata, costretta all’immobilità in un letto che le pie donne avevano collocato in quella cucina umida e buia dove le prestavano assistenza, pativa fame, freddo e solitudine. Trascinava la sua vecchiaia intessendo intimi dialoghi con i fantasmi di coloro che un tempo avevano popolato quella casa.

La morte la colse la notte del 3 aprile del 1966. Nessuno aveva cullato il suo ultimo lamento. Nessuna foto a ricordo del suo passare.

Fu rinvenuta il mattino seguente quando ormai la vita l’aveva abbandonata. Il corpo era ancora lì perché apparteneva alla terra, l’anima era già altrove.

L’ennesimo dramma della solitudine si era consumato in un leggero battito d’ali. Ultimo volo di una farfalla.

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