
di SERGIO PORTAS
La “Storia di un uomo magro”, lo spettacolo che Paolo Floris (lui con un monologo al centro del palcoscenico: una sedia tutta la scenografia) e Pierpaolo Vacca (anche lui sul palco, di lato, che accompagna la narrazione con le sue musiche, col fedele organetto diatonico) portano in giro per l’Italia, fa tappa a Milano, complice il centro sardo, al teatro Blu, sotto il grande cappello della “Giornata della Memoria”. Considerato che “sta in piedi” da nove anni (quest’anno arriverà a 137 repliche), si deve dire che è lo spettacolo più rappresentato, nel nostro paese, nell’occasione che tende a ricordare quel fatale gennaio del ‘45, quando uno sparuto numero di soldatini dell’Armata Rossa, i colbacchi a cercare di contrastare il freddo intenso di quell’inizio d’inverno, si trovarono dinanzi degli spettri d’uomo, vestiti solo di pigiami a righe bianche e blu, piedi nudi calzati di zoccoli di legno, che si aggiravano silenziosi e spaventati , tra mucchi di cadaveri che nessuno aveva avuto il tempo e la forza di seppellire, in uno dei campi di sterminio che il nazismo di Hitler aveva messo in piedi nell’Europa occupata: Auschwitz, nella Polonia orientale. I crani rasati, le ossa dei visi che parevano coperte da una pelle sottile come carta velina, tutti erano spaventosamente magri. Medesima miserrima sorte era toccata a Palmas Vittorio di Perdasdefogu, come è raccontato nel libro di Giacomo Mameli: “La ghianda è una ciliegia”, da cui è liberamente tratto lo spettacolo; lui era noto come Cazzài; da che mondo è mondo ogni abitante dei paesini sardi, tutti ma proprio tutti, avevano il loro soprannome, e con quello erano conosciuti, più che da quello che avevano ricevuto nel battesimo, e Cazzài erano stati il padre e Cazzài il nonno di Vittorio, e lui non avrebbe certo potuto sfuggire a cotanto destino. In quel periodo della storia era in uno di quei campi, non si ricorda neanche bene come si chiamasse, e pesava ben 37 chili, quando era “partito militare” da Foghesu ne pesava 62, per uno e sessanta di altezza. Abile e arruolato, anche se non sapeva né leggere né scrivere. A sentire Mameli, anche lui presente al teatro milanese e grande affabulatore di sé, alla fine dello spettacolo, impadronitosi della “sedia di scena”, rammenterà al pubblico presente, di quel giorno in cui, mentre giocava a pallone in “piazza di chiesa”, carpì la conversazione di due anziani che, seduti nell’unica panchina, facevano da pubblico, uno dei quali si vantava, mostrando con orgoglio le numerose ferite delle sue gambe, di essere “l’eroe più grande di Foghesu”. “Tappadì sa ucca”, gli aveva replicato ziu Vittorio: “Ca deu seu biu po dus chilos” (tappati la bocca, che io sono vivo per due chili). Chi ne pesava 35 era destinato alle camere a gas e a finire nei forni crematori. Lui l’aveva salvato la benevolenza di un tedesco anziano, che sovraintendeva al lavoro coatto giornaliero di dodici ore, a cui erano costretti i militari italiani che, dopo il fatale 8 di settembre del ‘43, quando il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio diede per radio l’annuncio dell’armistizio, chiesto e ottenuto dal comandante le truppe alleate il generale Eisenhower, già sbarcate in Sicilia e risalenti la penisola, non avevano voluto continuare la guerra insieme ai tedeschi sotto le bandiere, orfane della croce sabauda, della “Repubblica sociale italiana”: presidente Benito Mussolini, redivivo anche se per poco. Paolo Floris, degno alunno di Ascanio Celestini con cui è artisticamente cresciuto (e anche con Giancarlo Sammartano) fa venire i brividi quando lo racconta agli astanti, enfatizzando le situazioni più estreme, materializzandosi dinanzi agli occhi di tutti, in quel ragazzo sardo di Foghesu, che null’altro avrebbe voluto dalla vita, se non curare i suoi armenti, le sue capre e i due buoi, chiusi nello stazzo, curare le patate del suo orto. E brodo di poche patate erano la sbobba di tutti i giorni per i rinchiusi nei campi di sterminio, le bucce delle patate raccattate tra l’immondezza e bollite, avrebbero salvato parecchie di quelle vite. “Eravamo diventati tutti magri, pelle e ossa. In uno di questi campi c’erano anche ebrei. Quando ci spostavano da un campo all’altro spesso vedevamo passare gruppi di ragazze ebree, giovani, giovanissime, tutte rapate. E tutte magre come canne di fiume. Le portavano a lavorare. Spesso le spingevano col calcio del moschetto. Con urla disumane, forti come le voci dei battitori che vanno alla caccia al cinghiale. Ma loro urlavano a bambini, a mamme. Che ogni tanto cadevano. E ne venivano anche calpestate perché i kapò non consentivano alcuna fermata. E vicino c’era anche il forno crematorio” (a pag. 349 dell’edizione CUEC 2014, la prima nel 2006, l’anno successivo avrebbe vinto il premio Orsello, presiedeva la giuria Sergio Zavoli, mica uno qualunque!). L’organetto di Pierpaolo Vacca suona in sordina, quasi mai prevaricatore, fa sentire le gocce della pioggia che cade, il rumore del vento fra gli alberi. Paolo Floris da parte sua intona con bella voce: “Addio mia bella addio, e l’armata se ne va”. La sola canzone di tutta la serata. Legge anche alcune pagine del libro di Giacomo, Palo: “La fine della guerra: massacrati tre milioni di militari della Wehrmacht, chissà quanti civili. Per non dire degli altri morti, ebrei, italiani, francesi, slavi. Le pazzie delle guerre. Le leggi razziali, la razza ariana. E gli orrori sugli ebrei, sulle ebree. Su quelle bambine rapate che avevo visto nei campi di sterminio” (pag.352). Prima di riuscire a tornare a casa, in Sardegna, la “spagnola” si porta via anche la moglie: Fortuna, sposata poco prima che lui venisse dichiarato abile alla guerra, del resto medicine per poterla curare non ce n’erano, febbre altissima, non c’era neanche il termometro per misurarla. La figlioletta Maria resta orfana. “Vita povera delle donne di un paese povero con gente che viveva in case povere, senza luce. Tutto era povero, il modo di vestire e di mangiare, era povera anche la chiesa, poche statue e neanche un dipinto. Nelle città le chiese erano ricche, nel mio paese povera anche la casa di Gesù Cristo” (pag.353). “Rientro dal campo di concentramento magro come un chiodo, in paese mi vedono e si spaventano. Vado in camposanto, a portare una rosa a Fortuna, l’avevo colta nell’orto di Maria Lallai che aveva l’orto dei fichi e il giardino dei fiori alla Fontanella. A valle scorre il torrente Su Sciacquadorgiu dove le donne andavano a lavare i panni” (pag.354). Continua a narrare la storia di quest’uomo magro ( langiu comenti una pungia) Paolo Melis, dice di una santa donna, Giuseppa Carta, “di nàranta de Firedda, poitta sa mamma si lammàda Elvira” , che se lo sposa l’anno dopo il suo rientro a Foghesu. Della morte della piccola Maria sette anni dopo, di meningite. “ A pagu a pagu sa vida tòrrada a cumparri, nascinti atrusu cincu filgiusu,anzi cincu filgiasa, tottu femminasa, tottu bellas coment e Maria, tottu bellas comenti e Fortuna, tottu bellas comenti e Giuseppina, tottu bellas comenti fudi bella cudd’orrosa de s’ortu de Maria Lallai” (pag.357). Arrivano tanti nipoti. E tutti vogliono che nonno Cazzài racconti di quella guerra tonta che gli hanno fatto fare. Quelle guerre che anche oggi uomini perlopiù grassi e anziani, ricchi di mostrine dorate e medaglie, fanno fare ai giovani che diventano sempre più magri. Quando non ci lasciano la vita. Di questi ultimi scrive da sempre Giacomo Mameli nei suoi libri, che si moltiplicano, anche perché da lui arriva sempre un qualche centenario del suo paese che si lamenta chiedendogli “poitta non mi ci a postu in su libburu”. Tempi brutti quelli che stiamo vivendo, dice Giacomo, “io sono gramsciano e scelgo di stare da una parte ben precisa, conscio che la libertà va difesa ogni santo giorno, anche per questo noi facciamo la settimana della memoria”. Debbono scappare per essere domani a Marzabotto, faccio in tempo a scambiare due parole con Pierpaolo Vacca, mi dice che dopo tanto girare ha deciso di tornarsene a vivere nella sua Ovodda, dove è nato e da quando aveva sei anni ha tra le mani un organetto. Per vivere in una comunità che si ritrova anche inventandosi un festival quale è il “Sonala Fest”, giunto alla sua terza edizione, e che riesce ad attirare artisti da ogni angolo di Sardegna. Lui comunque sarà in giugno a Milano alla “Milanesiana” di Elisabetta Sgarbi, in compagnia di Paolo Fresu. Con cui ha fatto il disco:“Tango Macondo”, insieme a Daniele Di Bonaventura. A Palo Melis debbo delle scuse, gli ho raccontato che nel 1947 ero a Paulilatino dove lui è nato, con babbo militare lì trasferito, e mamma, io appena un anno di vita. Affidato alle cure di una servetta di dodici anni o giù di lì, che mi ha attaccato i pidocchi. Verità vuole che fossimo invece ad abitare ad Abbasanta, dieci chilometri dal suo paese in affitto da “su orgosolesu”. Mamma mi raccontava che il padrone di casa era momentaneamente in prigione a Oristano e che, ogni settimana, quando babbo ci andava a fare la spesa per la compagnia dei militari, si fermava con “la campagnola”, una sorta di jeep targata Fiat, a caricare la moglie, fuori dal paese, che nessuno vedesse, perché lei potesse andare a fargli visita in galera. Tutti comunque, ad Abbasanta, non si stancavano di chiederle come si trovasse a vivere in casa di questi “pericolosi orgosolesi”: persone di così buon cuore, diceva mamma, non le ho più incontrate in vita mia.