IL PRODOTTO SARDEGNA FUNZIONA SEMPRE NELLE SAGRE DAL GRANDE IMPATTO POPOLARE: A MILANO PER L’ARTIGIANATO IN FIERA

. A Milano artigiano in fiera è un “format” che funziona, quest’anno, dicono le cronache, sono stati più di un milione le persone che hanno varcato i cancelli della fiera di Rho che si è svolta dal 30 novembre all’otto di dicembre. Ci si può letteralmente ubriacare girando per i padiglioni che ospitano espositori che arrivano da 90 paesi, tanto sono scintillanti e ricchi di colore i prodotti esposti come facenti parte di un grande, grandissimo bazar, in cui ci si perde inevitabilmente nonostante la cartina che ti mettono in mano uscendo dalla metropolitana rossa solerti ragazze anche esse rosso vestite. Questa del resto non può che essere molto generica, tipo che se vuoi vedere l’artigianato saudita ( scelto quest’anno come Paese dell’Anno per il Medio Oriente insieme all’Algeria) ti dicono di andare al padiglione 10 e lì, oltre ai trentatré artigiani dalla kefiah  a quadretti bianchi e rossi che mi ricordano le tovaglie delle  trattorie milanesi d’una volta, appena sopra e confinante c’è il continente India e il Nepal e il Pakistan, ma anche un pezzo di Africa coi prodotti i più disparati di Kenia, Senegal, Eritrea. Non si può, umanamente, tutto assaggiare, tutto contrattare, tutto odorare (decine e decine di oli essenziali), tutto toccare con mano. E allora la scelta del chilometro zero, per noi sardi, si rivela ancora una volta la più foriera di benessere e anche la più facile da seguire, non che non ci sia il rischio di perdersi anche nel “continente Sardegna”, specie per quanto riguarda i prodotti caseari e della tradizione agricola in generale, dolci, pasta fresca, olio e mirto, miele, insaccati vari. Ma per lo meno ci risulta ovvio che un caprino della “Tia Juanna” di Olbia nulla ha a che fare con quelli venduti dalla Brau Farm di Orotelli (località Predu Pedde), della Barbagia di Nuoro, o del caseificio Marongiu di Ovodda che lavora il latte che proviene dalle pecore che pascolano alle falde del Gennargentu, 1000 metri di altitudine, località Galanovai. Un esempio per tutti, metto su la mia faccia di bronzo per queste occasioni e mi presento allo stand del caseificio “Marghine” di Borore esordendo con: “Dovete farmi uno sconto speciale, che il mio nonno materno è stato un Cherchi di Dualchi”. E’ come se avessi pronunciato la parola magica con cui Alì Babà apriva la porta del tesoro dei quaranta ladroni (apriti sesamo). Borore e Dualchi sono “paesi gemelli”, distano un otto chilometri l’uno dall’altro (il terzo gemello è Noragugume), l’uno non arriva a duemila abitanti, l’altro non arriva a seicento, ambedue sorgono ai piedi della catena del Marghine, nell’altipiano basaltico di Abbasanta. Gli abitanti si conoscono uno per uno tanto che il signor Paolo Sias mi dice che sì, a Dualchi di Cherchi ce ne sono ancora, facendomi nomi di parenti che non sento da mai. Loro i Daga-Sias, fanno formaggi da “allevamento biologico”, mandano al pascolo le loro 1500 pecore in località Porcarzos, che è anche il nome di un nuraghe del posto, poco sopra la strada provinciale 33 che porta a Dualchi, roba che in dieci minuti di strada arrivi al paese di nonno. Insomma sono accolto come fossi un parente redivivo. La signora Maria mi dice che la figura di donna che compare sul “logo” dei loro formaggi è quello della nonna che ha iniziato l’attività dal lontano 1920. Facendo il formaggio nel paiolo di rame (ora usano quelli di acciaio), dei quattro nipoti lei è l’unica che ha continuato l’attività (le sorelle laureate in ingegneria informatica e in pedagogia). Ma confida che i suoi figli vorranno lavorare nell’azienda di famiglia, che oltre alle pecore ha anche 20 vacche e maiali e cavalli. Tutti che si pascono di erba rigorosamente mai trattata a chimica o qualsivoglia concime artificiale. Aderiscono sin dal 1996 al sistema di certificazione biologica (Ente certificatore Suolo e Salute). Qui a Milano fanno assaggiare ai presenti il loro “Tannara”, il formaggio fresco dal sapore dolce e intenso, il semi-stagionato “Marzane” che assume toni più aromatici e lo stagionato “Elighe” che si distingue per il suo colore paglierino e la sua pasta friabile, il gusto caratterizzato da un’aroma piccante. Qui sperano di “chiudere bene”. Anche i Bussu del caseificio “Debbene” di Macomer dicono di essere prima di tutto pastori che gestiscono la loro azienda in modo rigorosamente biologico. Le 1800 pecore di razza sarda sono allevate allo stato brado e hanno circa 200 ettari di pascolo a disposizione. Nel caseificio sull’altopiano di Campeda si può vedere un cartello che descrive con dovizia di particolari e foto tutte le incredibili e diverse tipi di erba che si trovano sull’altipiano, lungo la strada che dalla SS131 porta a Bosa. Il loro fiore all’occhiello, è il nome stesso a dirlo, è il “Fiore sardo” di diverse stagionature, di quattro e otto mesi, DOP biologico presidio Slow Food, una sicurezza per i compratori e consumatori. Gianfranco Bussu, in verità usa toni poco ottimistici quando si lamenta che i ragazzi sardi scappano dalla pastorizia e dall’agricoltura in generale e ancora una volta ricorda che, a questo proposito, poco facciano le giunte di vario colore che si susseguono al comando della Regione Sardegna. Auspica un cambiamento   di rotta che finora non si è visto. Neppure coi “nuovi arrivati” della Todde. Per il caseificio Picciau di Decimomannu che in fiera viene da oramai dieci anni quest’anno è andata “abbastanza bene”, si fregia del marchio prestigioso del “Gambero Rosso” e, manco a dirlo, il latte viene solo da pecore sarde. Anche quelli della liquoreria Collu di Villasor che in fiera vengono da ben 15 anni sono molto contenti di come è andata quest’anno, il mirto è andato a ruba ma ci tengono a precisare che la loro azienda produce anche pasta solo di grano sardo certificato. A proposito di pasta fresca, anche per Francesca Pilia della Coop Sociale “Antichi Mulini” di Sadali (in fiera da 10 anni) è “andata bene”, hanno negozio nell’incantato paese immerso nelle acque della Barbagia di Seùlo che, cascata dopo cascata, arrivano in paese dove ancora oggi si possono vedere i lavatoi e i mulini in pietra. I loro culurgiones sono giustamente famosi, per poter sopravvivere, Sadali non arriva a mille abitanti, vendono anche nella zona di Cagliari. Compro un po’ di dolci da “Idolcisardi” di Serra Rita di Monastir, assaggio il mirto (buono e poco zuccherato) della Mielica Aresu di Donori, delle bottiglie di mirto bianco e rosso gliene sono rimaste davvero poche, giusto per sentire se è migliore di quello di Anna Piccinnu di Telti del “Galù”liquori. Mi lascio alle spalle i gioielli in filigrana dei Marrocu di Villacidro e i coltelli scintillanti d’acciaio temprato dell’”Arburesa”, lo splendido stand della sartoria di Rita Cossu di Pabillonis, lei rigorosamente in costume che si confonde con i manichini dagli scialli ricamati di sete policrome. Altrettanto ricchi di colori i tappeti, tessuti, coperte e copriletti e tutto quello che si può filare di “Nonna Maria Vittoria” di Sennori (Sassari), tutti esposti in modo sontuoso che neanche i tappeti marocchini della Medina di Marrakech. Per sapere come stanno le api sarde vado da Giorgio Saba dell’”Isola del Miele” di Gonnos (località “Rienatzu”) e, a sentire lui, fino a che si farà agricoltura usando fitofarmaci e pesticidi a gogò non si uscirà dalla crisi degli ultimi anni. Meno negativi quelli dell’”Apinath” di Marrubiu che, seguendo l’antico detto che l’unione fa la forza, si sono uniti con l’”Apicoltura Derosas” di Arzachena e hanno allestito un mega stand con ogni tipo di miele un uomo possa immaginare nei suoi sogni più dolci. Il miele arriva se vuole la Natura, mi dice Alessandro Pintadu, che con la moglie Daniela, nel 2010 ha messo su un’azienda di confetture e “miele artigianale” a Tula (loc. Monte Udulu) 1400 abitanti dalle parti del lago Coghinas, vogliono andare “oltre il biologico per puntare al selvatico”, non per niente l’azienda l’hanno chiamata “Areste”. “Quest’anno da noi ha piovuto molto a settembre, ha fatto un novembre con temperature piuttosto alte e da qui abbiamo moltissimo miele di corbezzolo. La fiera per noi è andata molto bene, a Tula pensavano che fossi pazzo a lasciare il posto fisso di finanziere (per le fiamme gialle correvo anche i 400 metri) per mettermi a fare marmellate. Mia moglie poi, laureata in Bocconi, giocava a pallavolo in serie A. I soldi per partire sono venuti dai regali che ci hanno fatto quando ci siamo sposati, e ora abbiamo tre figli. Della serie: se hai una buona idea e non ti scoraggi alle prime difficoltà anche in Sardegna puoi fare l’imprenditore e avere successo”. Il successo che hanno avuto anche i Foddi di Gonnofanadiga che fanno olio extrabuono con la “cultivar” Nera di Gonnos, venduti qui 1000 litri di olio e “fidelizzato la clientela” che li vede presenti da oramai 15 anni. E a proposito di crisi delle olive, quest’anno è andato meglio dell’anno scorso. Bene credo anche per l’”Armentizia Moderna” di Guspini, che ha letteralmente foderato il suo stand con tre bandierone sarde in modo che non ci fossero equivoci di sorta per la provenienza dei formaggi di capra, di pecora, le creme spalmabili, le ricotte saporite, le caciotte, quasi dieci metri di salsiccia arrotolata a mò di gomena di piroscafo venduta a pezzi. Successo grande della manifestazione tanto che i milanesi la riproporranno l’anno prossimo anche nella primavera, perché come dicono loro: “I danè a fan dana’, ma avei minga fan tribulà”: i soldi fanno dannare, ma non averne fanno tribulare.

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